"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 6 marzo 2022

Paginedaleggere. 96 «Hannah Arendt considerava ogni ideologia portatrice di violenza in quanto insensibile alle sorti della vita reale degli esseri umani».

 

“Storia&politica”. Ha scritto Angelo D’Orsi in “Non siamo europei senza i Tolstoj e i Dostoevskij”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di marzo 2022: “Un soffio di follia criminale” si sta abbattendo sull’Italia. Lo denunciava Antonio Gramsci, oltre un secolo fa, davanti al delirio nazionalistico, generato dalla Guerra mondiale, nel quale venne coinvolto, oltre a tutte le forze politiche, tranne i socialisti, e la quasi totalità del ceto intellettuale. E prima di lui, il premio Nobel Romain Rolland esterrefatto per questo “obnubilamento generale dell’intelligenza”, invitava i letterati scienziati e artisti europei a stare al di sopra della mischia, ossia a non mescolarsi alla “canea nazionalistica”. Userebbero credo le stesse parole oggi, davanti alla gigantesca union sacrée antirussa. Entrano in gioco qui due fattori: il primo è il classico riflesso condizionato della guerra, per cui il mondo viene diviso in due metà, e ciascuna accusa l’altra di essere portatrice di barbarie, e si autorappresenta come vessillo di civiltà. La guerra come meccanismo di “imbottitura dei crani” (ancora Gramsci), grande apparato di menzogna, fondato sulla semplificazione, le false notizie (…). Nulla di nuovo sotto il sole. Cambiano solo oggetti e soggetti. Nel 1916 a Torino si contestò un concerto di Arturo Toscanini perché aveva inserito un brano di Wagner nel repertorio: come osa far risuonare la barbarica musica germanica nelle orecchie sensibili della cittadinanza torinese? – si chiedeva sarcastico Gramsci. La sua fu la classica vox clamantis in deserto. E il giornalista socialista in un articolo chiese scusa a Toscanini, al quale toccò di peggio qualche mese dopo al Teatro Augusteo a Roma, quando il pubblico fischiò per la presenza di brani di musicisti tedeschi, tanto da costringere il maestro ad abbandonare la sala. E fu ancora Gramsci a difendere il tedesco Robert Michels (destinato a naturalizzarsi italiano, poi), uno dei grandi della scienza politica mondiale, escluso dall’ateneo torinese dove teneva dei corsi come Libero docente. Perché tedesco, e l’Italia era in guerra con la Germania. Oggi siamo di nuovo a quel punto. La guerra ottenebra le menti. E nella fattispecie, riaffiora la russofobia. Invano, negli anni Trenta, Leone Ginzburg, un russo (di Odessa!) che aveva scelto Torino, per farsi italiano e combattere contro il fascismo, si batteva perché ci si rendesse conto che l’identità europea non poteva prescindere dalla Russia: si può essere e sentirsi europei senza Tolstoj e Cechov, senza Puskin e Gogol, senza Dostoevskij? Di seguito “La cecità della guerra” di Massimo Recalcati (che porta all’occhiello “Putin e l’ideologia”) pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 3 di marzo 2022: La violenza della guerra è sempre cieca. Solitamente, come l'ideologia che la ispira. Il rapporto tra ideologia e cecità è un grande tema della filosofia politica. Per la psicoanalisi l'accecamento nella visione della realtà può dipendere da diversi fattori. Uno tra questi è l'infatuazione narcisistica per se stessi. Essa agisce come una lente deformante che offre una visione distorta della realtà. Narcisismo maligno e paranoia sono termini spesso convergenti: tutto ciò che è altro da me minaccia di morte la mia sussistenza. È l'attuale posizione di Putin. Si può pensare che alla radice della seduzione della guerra vi sia sempre una sorta di esondazione paranoica del narcisismo umano. Secondo la Torah è questo il solo peccato umano davvero degno di questo nome: credere di essere Dio, assimilarsi a Dio, agire come se si fosse un Dio in terra. Ma il Novecento ci ha insegnato che la megalomania paranoide dei grandi leader per conquistare il consenso e sospingere le masse verso la guerra necessitava però di un'altra condizione oltre a quella idolatricamente narcisistica: l'ideologia. Il narcisismo folle dell'Io per riuscire a mobilitare i collettivi umani deve sempre agganciarsi solidamente ad una Causa. Quale Causa? Nel Novecento ne abbiamo avute diverse incarnazioni: la Razza, la Storia, l'Impero, il Popolo. Nella recente guerra in Ucraina troviamo ancora in primo piano questo connubio che sembra risorgere spettralmente dal Novecento. Da una parte l'espansionismo dell'Io di un leader - Vladimir Putin - autoritario, centrato su se stesso, incarnazione di un fantasma machista e paranoide che vive la democrazia come una minaccia costante alla propria identità; dall'altra l'ideologia del ritorno nostalgico alla Russia sovietica, a un nazionalismo imperialista che rifiuta il cammino della storia verso la democrazia. Non a caso Putin, sebbene sia un prodotto culturale diretto del comunismo russo, è sempre stato guardato con ammirazione dalle Destre occidentali: il pugno di ferro, la rivendicazione sovranista, la difesa militare dei propri confini, il disprezzo per il parlamentarismo e, in fondo, per la cultura illuminista dell'Occidente tout court, definiscono il ritratto di un leader evidentemente reazionario. Ne è un esempio l'uso della macchina ideologica nella vicenda ucraina che vorrebbe trasfigurare la violenza tragica della guerra in un'operazione politica considerata necessaria. La parola "guerra" viene, infatti, ancora sistematicamente censurata dai media del regime russo a favore della formula neutra di "operazione speciale". La retorica del potere e della tirannide ci aveva abituati già nel Novecento a sofismi linguistici che tendevano a nascondere lo scempio traumaticamente brutale della violenza. Basti pensare alla terminologia artefatta con la quale il regime nazista copriva il crimine atroce dell'Olocausto. Questa divaricazione tra il linguaggio e la realtà è un'astuzia di ogni regime totalitario, compreso quello putiniano. Non a caso Hannah Arendt considerava ogni ideologia portatrice di violenza in quanto insensibile alle sorti della vita reale degli esseri umani. L'imperialismo dell'Idea schiaccia con noncuranza e totale indifferenza la singolarità insacrificabile della vita. L'aridità dei numeri si sostituisce alla vita dei nomi propri: quanti morti tra i suoi soldati avrà previsto Putin in questa "operazione speciale"? Quanti nelle file dell'esercito avversario e quanti, infine, nella popolazione civile? Insignificanza della singolarità della vita di fronte alla cecità fanatica dell'ideologia. È questo il grande e cinico vantaggio di cui gode Putin. Ai suoi occhi le vite degli altri sono solo numeri. Per questo egli non teme affatto la guerra, ma ne è sedotto. L'universale dell'Idea - la difesa della grande Russia e delle sue ambizioni dai ridimensionamenti imposti dall'Occidente - non può essere contraddetto dalla morte insignificante di chi è destinato a essere solo una comparsa nella Storia. La sconcertante continuità antropologica tra i nostrani sostenitori di Putin e i No Vax più ideologici riflette bene la totale insensibilità e mancanza di solidarietà nei confronti della vita degli altri. Eppure sappiamo che sono sempre le popolazioni civili a patire le conseguenze più tragiche dei conflitti armati. Il numero di sfollati, feriti, rifugiati, morti tra i civili è in ogni guerra sempre superiore a quello dei soldati caduti in battaglia. Il meccanismo è fatale: più si accentua il valore ideale della Causa, più perdono valore le vite degli uomini reali. È la spina dorsale di ogni ideologia, il suo tratto marcatamente fondamentalista. Saranno le giovani generazioni russe, culturalmente più libere dall'accecamento ideologico, a ricordare al dittatore imperialista che al fondo di ogni ideologia si annida sempre una pulsione di morte? Sarà lo spirito illuminista e democratico dell'Europa a contrastare la terribile seduzione paranoica della guerra?

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