“Storia&politica”. Ha scritto Angelo D’Orsi in “Non siamo europei senza i Tolstoj e i
Dostoevskij”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di marzo 2022: “Un
soffio di follia criminale” si sta abbattendo sull’Italia. Lo denunciava
Antonio Gramsci, oltre un secolo fa, davanti al delirio nazionalistico,
generato dalla Guerra mondiale, nel quale venne coinvolto, oltre a tutte le
forze politiche, tranne i socialisti, e la quasi totalità del ceto
intellettuale. E prima di lui, il premio Nobel Romain Rolland esterrefatto per
questo “obnubilamento generale dell’intelligenza”, invitava i letterati
scienziati e artisti europei a stare al di sopra della mischia, ossia a non
mescolarsi alla “canea nazionalistica”. Userebbero credo le stesse parole oggi,
davanti alla gigantesca union sacrée antirussa. Entrano in gioco qui due
fattori: il primo è il classico riflesso condizionato della guerra, per cui il
mondo viene diviso in due metà, e ciascuna accusa l’altra di essere portatrice
di barbarie, e si autorappresenta come vessillo di civiltà. La guerra come
meccanismo di “imbottitura dei crani” (ancora Gramsci), grande apparato di
menzogna, fondato sulla semplificazione, le false notizie (…). Nulla di nuovo
sotto il sole. Cambiano solo oggetti e soggetti. Nel 1916 a Torino si contestò
un concerto di Arturo Toscanini perché aveva inserito un brano di Wagner nel
repertorio: come osa far risuonare la barbarica musica germanica nelle orecchie
sensibili della cittadinanza torinese? – si chiedeva sarcastico Gramsci. La sua
fu la classica vox clamantis in deserto. E il giornalista socialista in un
articolo chiese scusa a Toscanini, al quale toccò di peggio qualche mese dopo
al Teatro Augusteo a Roma, quando il pubblico fischiò per la presenza di brani
di musicisti tedeschi, tanto da costringere il maestro ad abbandonare la sala.
E fu ancora Gramsci a difendere il tedesco Robert Michels (destinato a
naturalizzarsi italiano, poi), uno dei grandi della scienza politica mondiale,
escluso dall’ateneo torinese dove teneva dei corsi come Libero docente. Perché
tedesco, e l’Italia era in guerra con la Germania. Oggi siamo di nuovo a quel
punto. La guerra ottenebra le menti. E nella fattispecie, riaffiora la
russofobia. Invano, negli anni Trenta, Leone Ginzburg, un russo (di Odessa!)
che aveva scelto Torino, per farsi italiano e combattere contro il fascismo, si
batteva perché ci si rendesse conto che l’identità europea non poteva
prescindere dalla Russia: si può essere e sentirsi europei senza Tolstoj e
Cechov, senza Puskin e Gogol, senza Dostoevskij? Di seguito “La cecità della guerra” di Massimo Recalcati
(che porta all’occhiello “Putin e l’ideologia”) pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 3 di marzo 2022: La violenza della guerra è sempre
cieca. Solitamente, come l'ideologia che la ispira. Il rapporto tra ideologia e
cecità è un grande tema della filosofia politica. Per la psicoanalisi
l'accecamento nella visione della realtà può dipendere da diversi fattori. Uno
tra questi è l'infatuazione narcisistica per se stessi. Essa agisce come una
lente deformante che offre una visione distorta della realtà. Narcisismo
maligno e paranoia sono termini spesso convergenti: tutto ciò che è altro da me
minaccia di morte la mia sussistenza. È l'attuale posizione di Putin. Si può
pensare che alla radice della seduzione della guerra vi sia sempre una sorta di
esondazione paranoica del narcisismo umano. Secondo la Torah è questo il solo
peccato umano davvero degno di questo nome: credere di essere Dio, assimilarsi
a Dio, agire come se si fosse un Dio in terra. Ma il Novecento ci ha insegnato
che la megalomania paranoide dei grandi leader per conquistare il consenso e
sospingere le masse verso la guerra necessitava però di un'altra condizione
oltre a quella idolatricamente narcisistica: l'ideologia. Il narcisismo folle
dell'Io per riuscire a mobilitare i collettivi umani deve sempre agganciarsi
solidamente ad una Causa. Quale Causa? Nel Novecento ne abbiamo avute diverse
incarnazioni: la Razza, la Storia, l'Impero, il Popolo. Nella recente guerra in
Ucraina troviamo ancora in primo piano questo connubio che sembra risorgere
spettralmente dal Novecento. Da una parte l'espansionismo dell'Io di un leader
- Vladimir Putin - autoritario, centrato su se stesso, incarnazione di un
fantasma machista e paranoide che vive la democrazia come una minaccia costante
alla propria identità; dall'altra l'ideologia del ritorno nostalgico alla
Russia sovietica, a un nazionalismo imperialista che rifiuta il cammino della
storia verso la democrazia. Non a caso Putin, sebbene sia un prodotto culturale
diretto del comunismo russo, è sempre stato guardato con ammirazione dalle
Destre occidentali: il pugno di ferro, la rivendicazione sovranista, la difesa
militare dei propri confini, il disprezzo per il parlamentarismo e, in fondo,
per la cultura illuminista dell'Occidente tout court, definiscono il ritratto
di un leader evidentemente reazionario. Ne è un esempio l'uso della macchina
ideologica nella vicenda ucraina che vorrebbe trasfigurare la violenza tragica
della guerra in un'operazione politica considerata necessaria. La parola
"guerra" viene, infatti, ancora sistematicamente censurata dai media
del regime russo a favore della formula neutra di "operazione
speciale". La retorica del potere e della tirannide ci aveva abituati già
nel Novecento a sofismi linguistici che tendevano a nascondere lo scempio
traumaticamente brutale della violenza. Basti pensare alla terminologia
artefatta con la quale il regime nazista copriva il crimine atroce
dell'Olocausto. Questa divaricazione tra il linguaggio e la realtà è un'astuzia
di ogni regime totalitario, compreso quello putiniano. Non a caso Hannah Arendt considerava ogni ideologia portatrice di
violenza in quanto insensibile alle sorti della vita reale degli esseri umani. L'imperialismo
dell'Idea schiaccia con noncuranza e totale indifferenza la singolarità
insacrificabile della vita. L'aridità dei numeri si sostituisce alla vita dei
nomi propri: quanti morti tra i suoi soldati avrà previsto Putin in questa
"operazione speciale"? Quanti nelle file dell'esercito avversario e
quanti, infine, nella popolazione civile? Insignificanza della singolarità
della vita di fronte alla cecità fanatica dell'ideologia. È questo il grande e
cinico vantaggio di cui gode Putin. Ai suoi occhi le vite degli altri sono solo
numeri. Per questo egli non teme affatto la guerra, ma ne è sedotto. L'universale
dell'Idea - la difesa della grande Russia e delle sue ambizioni dai ridimensionamenti
imposti dall'Occidente - non può essere contraddetto dalla morte insignificante
di chi è destinato a essere solo una comparsa nella Storia. La sconcertante
continuità antropologica tra i nostrani sostenitori di Putin e i No Vax più
ideologici riflette bene la totale insensibilità e mancanza di solidarietà nei
confronti della vita degli altri. Eppure sappiamo che sono sempre le
popolazioni civili a patire le conseguenze più tragiche dei conflitti armati.
Il numero di sfollati, feriti, rifugiati, morti tra i civili è in ogni guerra
sempre superiore a quello dei soldati caduti in battaglia. Il meccanismo è
fatale: più si accentua il valore ideale della Causa, più perdono valore le
vite degli uomini reali. È la spina dorsale di ogni ideologia, il suo tratto
marcatamente fondamentalista. Saranno le giovani generazioni russe,
culturalmente più libere dall'accecamento ideologico, a ricordare al dittatore
imperialista che al fondo di ogni ideologia si annida sempre una pulsione di
morte? Sarà lo spirito illuminista e democratico dell'Europa a contrastare la
terribile seduzione paranoica della guerra?
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