“Psiche&guerra”. Ha scritto Filippo Ceccarelli -
nel Suo “pezzo” che ha per titolo “Nella
bolla di Putin” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” dell’11
di marzo 2022 - che (…), la distanza è certo uno dei
tratti del potere, ma quando è troppa finisce per rivelare fino a che punto nel
caso di Vlad (lo zar Putin n.d.r.) –
bad o mad che lo si voglia considerare –
il tempo macho delle prodezze pop abbia lasciato il campo a un automa
non più guidato dalla sua volontà. In questi giorni scrittori, politologi e
apparati spionistici si sono esercitati sulla presunta pazzia dell’autocrate,
certo cambiato, forse malato, comunque irriconoscibile, come se fosse in trance
o chiuso in un bunker claustrofobico, immerso in una bolla di fanatismo
messianico, prigioniero di una realtà parallela, ossessionato dal Covid e da
fantasmi privati. Eppure è quasi sempre inutile diagnosticare patologie mentali
ai dittatori. Erano matti Stalin, Hitler, Mussolini e Gheddafi? Beh, qualcosina
lo lascia pensare, ma per la storia che cosa cambia? Il punto, semmai, è che
senza quella follia non sarebbero arrivati e rimasti tanto a lungo al potere. Così,
l’unico conforto sta in un libricino uscito 45 anni fa, Saggio sui potenti, di
Piero Melograni (Laterza, 1977), in cui è ben spiegato che i potenti, appunto,
conoscono molto meno di quello che s’immagina; che nel loro quotidiano
subiscono l’influsso di organizzazioni esterne oltre che di paralizzanti
burocrazie; che sono condizionati dalle leggi dell’economia; che bene o male
devono sforzarsi di tener conto di ciò che pensano le masse e i media, che a
loro volta spesso e volentieri risentono di suggestioni irrazionali. E già
questo basterebbe non già a compatire la sorte dei tiranni, ma almeno a
comprendere la vitaccia che fanno. Ma tocca aggiungere un altro inconveniente
che consiste nel numero di volte al giorno in cui sono costretti a pensare che
qualcuno – più di qualcuno, in realtà – vuole ucciderli. Hai voglia con
pretoriani, sosia e cuochi assaggiatori! Al di là dell’illusoria messinscena, i
potenti sono poco potenti. Melograni parla moltissimo della Russia. In Guerra e
pace Tolstoj ha eretto il perfetto monumento di questa impotenza. Più che la
follia, la distanza fra Vlad e i suoi mette a nudo il volto demoniaco del
potere: essere posseduti da una volontà che sola crea la grandezza, ma insieme
racchiude in sé forze pericolosamente distruttive. Di seguito, “Putin e Zelensky psicologie parallele”
di ******** *****, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 20 di marzo ultimo:
(…).
I conflitti armati non si concludono sempre secondo i pronostici dell’inizio,
basati su realtà e azzardo, su improvvisazioni e convinzioni. Il Financial
Times ha elencato le possibili soluzioni. Le ha citate quasi tutte: una
vittoria russa totale; la destituzione (che immaginiamo tragica) del coraggioso
Zelensky; una vittoria russa parziale con la spartizione dell’Ucraina, una
sotto il controllo russo e una con Zelensky; il ritiro russo con la disgrazia
politica di Vladimir Putin; una guerra tra la Nato e la Russia. Quest’ultima è
una soluzione estrema che ci riporterebbe agli anni 40 del secolo scorso. (…).
Analizzare la situazione dal punto di vista militare e diplomatico per il
momento non porta a conclusioni del tutto convincenti. Meglio affidarsi a un
panorama in cui la psicologia ci aiuta a decifrare gli avvenimenti che hanno
portato i protagonisti del dramma attuale a confrontarsi. Vladimir Putin ha
oggi 70 anni, Volodymyr Zelensky ne ha 44. Putin aveva 37 anni nel 1989, quando
crollò il Muro di Berlino, ed era tenente colonnello del Kgb di stanza a
Dresda. Zelensky era un adolescente di 11 anni. E ne aveva due di più quando
naufragò, si dissolse, l’Unione Sovietica. Vladimir Putin l’ha dunque conosciuta
e servita. Volodymyr Zelensky ne ha sentito parlare. Il 5 dicembre, un mese
dopo il crollo del Muro, Vladimir Putin è ancora a Dresda, mentre si
moltiplicano le manifestazioni nella Germania orientale sempre meno comunista.
Dalla sede del Kgb, che è accanto a quella della Stasi, Putin vede la folla che
dopo avere incendiato l’edificio dell’agenzia sorella tedesca si dirige verso
quello in cui lui si trova. E allora senza esitare affronta con la rivoltella
spianata i dimostranti e riesce a disperderli. All’agente del Kgb, risoluto e
ambizioso, non è certo sfuggito il declino dell’impero comunista. Se ne è reso
conto nella Germania orientale, e ne vede i segni a Mosca dove lo coinvolge la
vita politica. Boris Eltsin, primo presidente della Russia post-comunista, lo
aiuta nell’affrettare la carriera. Putin non appare un orfano triste del
comunismo, se mai risulta a tratti il contrario, ma è nostalgico dell’impero
russo che si decompone, che perde pezzi, repubbliche in Asia e in Europa. E
prestigio nel mondo. Putin sogna una Russia “zarista”. Nell’esercizio
del potere, in particolare quando diventa presidente o è capo del governo, non
risparmia gli oppositori che colpisce con le epurazioni, l’emarginazione, e che
talvolta fa anche uccidere. Mentre favorisce i sudditi miliardari, gli
oligarchi, creatisi con la fine del sistema comunista. Ha nostalgia dell’impero
e fretta di ricomporlo. Come a Dresda nell’89 ha spianato la rivoltella contro
i manifestanti che volevano bruciare la sede del Kgb, adesso spiana il suo
esercito contro l’Ucraina, indipendente dal crollo comunista, e tentata
dall’Unione europea e dall’ingresso nella Nato. Il presidente Zelensky ha
espresso questa volontà più volte, pensando di poterla realizzare un giorno. Lui
non ha la nostalgia dell’impero. E non pensava, quando si pronunciava in favore
di un’adesione alla Nato, di dare col tempo il pretesto per un’invasione a
Putin, con il quale era già ai ferri corti. Zelensky parla il russo come
l’ucraino, forse meglio. Quando era un attore recitava nelle due lingue. Ma il
cuore è ucraino. Egli ha un personale vantaggio sul suo avversario di Mosca. La
sua evidente inferiorità militare non implica un’umiliazione. La resistenza
opposta all’esercito russo, che ha tardato e faticato a conquistare le città
dopo assedi troppo lunghi per la disparità di forze, così come la lentezza dei
mezzi corazzati russi, fanno dubitare molti esperti dell’efficienza delle forze
armate di Putin. La tenace resistenza dell’esercito e delle milizie ucraine
suscita invece ammirazione anche se non esclude la perdita di città e villaggi.
Per Putin una ritirata sarebbe un’umiliazione difficilmente sopportabile per un
presidente di una grande potenza. (…).
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