“Psiche&guerra”. Ha scritto Wlodek Goldkorn in “Spazio-tempo”, pubblicato sul
settimanale “L’Espresso” del 6 di marzo 2022: Capita che sguardi e percezioni del
tempo e quindi dello spazio, differenti fra di loro, si manifestino
contemporaneamente e entrino in un violento conflitto. C'è il tempo dell'inizio
del Terzo Millennio che anticipa il post umano, e soprattutto, con le
connessioni virtuali abolisce lo spazio. Con due clic sulla tastiera del
computer o dello smartphone possiamo partecipare, contemporaneamente, a una
riunione a Melbourne, comprare azioni alla Borsa di Tokyo, seguire la tv di
Mosca, come se fossimo ubiqui. È il tempo che chiamiamo occidentale (cui
aspirano pure i migranti in fuga dalla guerra e dalla fame). Abbiamo detto
Mosca. Il tempo di Vladimir Putin è invece quello della seconda metà
dell'Ottocento. Un Impero russo diffidente nei confronti della modernità
occidentale. Una modernità di cui lo zar è disposto ad accogliere gli aspetti
tecnici ma non lo spirito libertino, contraddittorio, carico di incertezze
legate alla curiosità e inventiva degli umani. È un Impero ossessionato dal
controllo dello spazio limitrofo, convinto che dall'oltre frontiera possa
venire solo una minaccia all'esistenza dello stesso Paese e quindi il tempo va
fermato per controllare lo spazio. Infine, c'è il tempo dell'Ucraina. È il
tempo dei primi due decenni del Novecento dell'Europa centrale e dell'Est,
Turchia compresa. Costruzione della Nazione da parte dei popoli che facevano
parte degli imperi disfatti. Una lingua quindi che unifichi e uniformi gli
abitanti là dove di idiomi ne convivevano due o tre. Una sola identità, là dove
le identità erano plurime e fluide. La guerra in corso ha riportato il passato
dentro il nostro presente. Anche per questo fa paura. Di seguito, “La frontiera fragile tra noi e l’orrore”
di Paolo Rumiz, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, sabato 12 di
marzo 2022: (…). C’è un’invasione, l’Europa è in allarme. Ma è dal ’14 che
l’Ucraina è in guerra. Dov’era la politica in questi otto anni? Pensava ad
altro: ai rifugiati, al Covid. E noi per anni abbiamo vissuto di emergenze in
una sequenza monotematica che ignorava il resto del mondo. Ora c’è l’Ucraina, e
anche l’Ucraina cancella tutto il resto fino a quando un nuovo allarme mondiale
la sostituirà. La pandemia continua, ma non è più un tema. Avanti così, in una
rete di amnesie che ci espone a bruschi risvegli. Oggi dal silenzio
dell’indifferenza siamo precipitati nel frastuono delle “Breaking news” che
alzano il livello dell’ansia ma non aiutano a capire. Per otto anni abbiamo
dormito, come i governanti che nel 1914 hanno dato il via al massacro mondiale
in uno stato di ebete sonnambulismo. Ciechi e muti, come a Srebrenica, dove
eravamo complici. Oggi c’era dalla nostra un leader finalmente presentabile
come Zelensky, ma non abbiamo colto l’occasione, e ora ne subiamo le
conseguenze. Ci muoviamo ancora in ordine sparso, uniti solo da un’isteria
maccartista da analfabeti contro un grande popolo vittima di un autocrate.
Questo, mentre le badanti russe e ucraine in Italia pregano per la pace nelle
stesse chiese, leggono insieme Dostoevskij e insieme cantano nella cripta di
San Nicola a Bari. Sanno che i loro due popoli, un po’ come Miroslav Krleža
disse con autoironia di Serbi e Croati, sono «lo stesso letame diviso in due
dal carro della storia». Ora parlano i kalashnikov. Un giovane musicista
ucraino posta su whatsapp la foto di un lanciagranate puntato sulla strada da
una finestra e scrive: «Avevo comprato una tromba per far musica, ma Dio ha
deciso diversamente e mi ha regalato questo meraviglioso strumento che mi dice:
“Forza, suonami!”. E io lo sto suonando». Maksim, chiamiamolo così, ha lavorato
nell’orchestra sinfonica europea alla quale ho prestato la voce narrante. Gli
abbiamo scritto: «lascia stare Dio, che non c’entra. È da irresponsabili
mettere in mano a un civile uno strumento simile. La guerra falla fare ai
soldati. La tua battaglia è in musica, per il tuo Paese e per l’Europa».
Risposta: «La guerra non è stata una mia scelta. Io volevo suonare, ero pronto
a partire per dei festival. Ora non posso fare altro che combattere per la
patria o morire. Pregate per la mia terra». Anche nel più mite degli ucraini si
agita un cosacco, e Maksim ci ricorda che è tardi per la politica e la
diplomazia; che non è più il tempo dei distinguo, perché la guerra disattiva la
dialettica e il pensiero complesso. Non serve dirgli che nei tank che assediano
la sua città vi sono giovani di vent’anni che soffrono a eseguire gli ordini,
perché Russi e Ucraini sono, a milioni, imparentati fra loro. Inefficace farlo
ragionare sul fatto che la sua scelta renderà più pesanti le perdite fra i
civili. Inutile farlo riflettere che questa è una strana invasione, se lascia
aperti dei confini, non tocca le reti telefoniche e consente a dei treni di
andare. O che tra le forze ucraine vi sono formazioni come il Battaglione Azov,
noto per le torture ai civili russi nel Donbass. Miserabili sfumature, di
fronte all’enormità di un’aggressione. Dalla mia casa di campagna vedo passare
gli ucraini in fuga che accogliamo a braccia aperte e, a poca distanza, nei
boschi, i poveri cristi da Siria e Afghanistan che nessuno vuole. Nella
corrente alternata della solidarietà, i secondi non sono più di moda. Peggio:
aiutarli è ancora un crimine, secondo la legge Salvini che il nuovo governo non
ha mai abrogato. I loro paesi li abbiamo bombardati anche noi, ma puniamo
egualmente questi migranti con un’avversità razziale che non ci rende così
diversi da Polacchi e Ungheresi. Li lasciamo morire di gelo sulla frontiera
bielorussa o marcire nei gulag turchi, greci, bulgari. Cinque milioni di
profughi che non vogliamo vedere perché non sono biondi e non hanno gli occhi
chiari. La mia frontiera è un sismografo che registra ogni scossa anche a
migliaia di chilometri. Da quando sono nato, non ho fatto che veder genti in
fuga da guerre, pulizie etniche o carestie. Istriani, Dalmati, dissidenti
Jugoslavi, Curdi, Bosniaci, Iracheni, Afghani, Siriani e ogni genere di popoli
africani. Una processione dolente, interminabile, che continua ad arrivare da
Est o da Sudest per confluire nello stesso punto. Una sola cosa non avevo mai
visto: che su questa linea ci fosse chi ha diritto alla vita e chi può anche
crepare. Tu sì, tu no. Due file, come ad Auschwitz. Difficile dormirci sopra.
Vado a far legna nel bosco per... non finanziare la Gazprom. Un modo vigliacco
per nascondermi, non pensare al tramonto dell’Europa e sfuggire alla vergogna.
O per sparire da questo mondo ipercontrollato dove la libertà è morta e la
pietà pure. Fa freddo e la stufa inghiotte intere cataste. Intanto, la macchina
delle armi va avanti lo stesso. Da decenni finanziamo il riarmo di Putin
comprando il suo gas e, pur di avere il culo al caldo, abdichiamo dai principi
fondativi della nostra democrazia. Cecenia? Anna Politkovskaja? Tutto
dimenticato. Meglio sorseggiare aperitivi, guardare Netflix e intanto delegare
alla sola America la nostra difesa, senza integrare il pensiero atlantico con
una visione mediterranea. Eppure mai come ora è tempo di esportare la
democrazia in un altro modo, senza erodere gli spazi cuscinetto fra noi e la
Russia e senza far danni irrimediabili come a Kabul, dove siamo stati cacciati
a pedate da un’orda di guerrieri scalzi. Ero a Leopoli nell’inverno del 2014,
durante la rivolta di piazza Maidan a Kiev. Fu subito chiaro che il popolo non
si era sollevato contro i Russi, ma contro i corrotti. Una rivolta civica, nata
dalla nausea per gli eccessi di un governo di ladri. In piazza Maidan la
fertile Ucraina, granaio d’Europa, si chiedeva le ragioni della sua povertà e
le trovava nella corruzione della cleptocrazia post-comunista. Ma appena il
governo fantoccio del Cremlino è caduto a furor di popolo, la nomenclatura, con
la tipica, collaudata giravolta che s’era già vista in Jugoslavia o con la
caduta di Ceausescu in Romania, ha ordinato ai servizi segreti di trasformare
la rabbia politica in uno scontro etnico, per non pagare il conto del suo
fallimento. Ammazzatevi fra voi, idioti, invece di discutere il potere. L’Ucraina
è lontana da Washington. L’Europa occidentale no, non può permettersi di
ignorarlo. L’Ucraina è Europa. Per certi aspetti ne è il baricentro. «Ucraina
vuol dire frontiera, terra di mezzo», mi ricordò già nel 2008 in una stazione
fra Leopoli e Odessa uno studente di medicina. Detestava Putin, ma aggiunse:
«Se il mio Paese smette di essere ciò che è stato per secoli, cioè uno stato
cuscinetto, per entrare in un’alleanza occidentale, succede il putiferio e
Mosca interviene». Ripenso spesso a quell’incontro di quattordici anni fa, (…).
Chiunque ha un briciolo di memoria sa che la fascia di territorio fra i Balcani
e il Baltico è anche una linea di faglia altamente infiammabile, una Blood
Land, come l’ha definita Timothy Snyder, dove Est e Ovest non hanno ancora
risolto le loro pretese imperiali e dove il fango ha inghiottito sessanta
milioni di vite in una successione di tragedie lunga un secolo. Non possiamo
consentire che si incendi ancora. Oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non
è più una cosa che riguarda gli altri. Stavolta, più che con la guerra
jugoslava, ci sfiora l’idea che potremmo diventare profughi anche noi. Sarebbe
un peccato scoprire solo quando è tardi il sapore dolce della pace.
"Con il presidente Putin non riusciremo a dare forma alla nostra democrazia, torneremo solo al passato. Non sono ottimista in questo senso e quindi il mio libro è pessimista. Non ho più speranza nella mia anima. Solo un cambio di leadership potrebbe consentirmi di sperare ".(Anna Politkovskaja).
RispondiElimina"L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede". (Anna Politkovskaja). "Voglio fare qualcosa per altre persone,usando il giornalismo". (Anna Politkovskaja). "Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano". (Anna Politkovskaja). Grazie per questo post straordinario, poiché si distingue particolarmente per la ricchezza della numerose grandi verità che contiene. Buona continuazione.