È veramente avvilente, da deprimersi, vedere le
immagini delle manifestazioni “no-vax”, “no-pass”, “no-tutto”. L’avvilimento
sta tutto in quell’invocare scomposto la tanto agognata “libertà”. Liberi da
cosa? Liberi per cosa? Liberi dalle catene, forse? Liberi dalla violenza, forse?
Liberi dalla fame, forse? Ha scritto Enzo Bianchi – già priore della Comunità
monastica di Bose – in “Chi cerca una
vita nella libertà”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 6 di settembre
2021, di coloro i quali mettono a rischio la propria sopravvivenza e quella dei
propri cari per una di quelle libertà che si sono molto sinteticamente sopra ricordate.
Orbene, quei signori lì, di quale libertà sono stati orbati? Ché lo stato
sociale non si sia preoccupato, nel corso della pandemia, e lo continua a fare
tuttora, ad assistere tutti indistintamente senza esclusioni per nessuno? Dov’erano
o dove sono stati quei bighelloni lì di “no-vax”, “no-pass”, “no-tutto”? Leggiamo
di seguito qual che ha scritto Enzo Bianchi: (…). …quelli
che riescono a fuggire dall'oppressione e dalla violenza, sono i profughi in
cerca di una vita nella libertà, e per noi sono immigrati che sognano un
lavoro e una casa nel nostro Paese. Da venticinque anni circa arrivano a ondate
da terre di guerra o di fame e ci chiedono ospitalità destando diverse reazioni
da parte nostra. Siamo così invitati a rinnovare l'ospitalità, che significa
"ricevere presso di sé" ma anche un inizio di nuove relazioni,
accoglienza che implica apertura e generosità. Non dovremmo mai dimenticare che
da "ospitalità" derivano "ospedale", luogo per la cura dei
malati, e "ospizio", luogo per dare aiuto e riparo a viandanti,
poveri, stranieri. Nel nostro quotidiano l'ospitalità si impone sempre come
accoglienza dell'altro, e oggi ci appaiono come figure eminenti dell'alterità
soprattutto lo straniero, il rifugiato, il migrante, come nel passato lo erano
l'orfano, la vedova e il povero: i senza dignità! L'ospitalità infatti riguarda
la relazione io-tu, l'incontro con l'altro che disorienta, che è sempre una
minaccia alla centralità della mia persona o del mio gruppo di appartenenza.
Per questo Sartre poteva affermare: "Gli altri? Sono l'inferno!". Ma
per gli umani gli altri in realtà sono la salvezza, la vita, la fecondità, e
certo assegnano a ciascuno di noi una responsabilità perché quando li si
avvicina si diventa consapevoli che il loro volto è domanda, è vulnerabilità, è
un appello a rinunciare alla violenza. Paul Ricoeur insisteva nell'affermazione
che l'altro è costitutivo del sé e che "noi dobbiamo considerare noi
stessi come gli altri!". È il nostro destino, sempre segnato dalla
presenza dell'altro fin dalla nascita, fin da quando con dolore scopriamo la
presenza dell'altro in competizione con noi per l'amore dei genitori e dobbiamo
imparare a fargli posto. Resta significativo che nel mondo mediterraneo
dell'antichità l'ospitalità (xenía) verso lo straniero fosse considerata la
"grande virtù", con la creazione di un vero e proprio codice
dell'accoglienza; dal saluto iniziale, nello stupore di chi sa che in questo
modo si può anche accogliere un dio, a una serie di gesti: accompagnare per
mano l'ospite alla casa, fornirgli acqua perché si possa lavare i piedi,
preparargli un pasto e un alloggio per la notte. Accogliere sconosciuti,
stranieri, mendicanti era vista come possibilità per accogliere gli dèi o gli
angeli. Nel cristianesimo, come nell'ebraismo, l'ospitalità dello straniero ha
sempre avuto una portata teologica perché nel volto di chi viene accolto è Dio
stesso a rivelarsi in incognito. Così commenta il precetto dell'accoglienza il
grande Jonathan Sacks: "La persona che vede Dio nel volto dello straniero
è più grande di chi vede Dio in un'apparizione! Perché dai giorni di Abramo
compito nostro non è salire in cielo ma far discendere il cielo sulla terra nei
gesti semplici di ospitalità e di amicizia". Come mai allora molti
cristiani ostili e diffidenti verso i migranti rivendicano le radici
ebraico-cristiane come nostre? Le conoscono davvero o molto semplicemente le
ignorano? Ecco, scrive Enzo Bianchi, “profughi in cerca di una vita nella
libertà”. Altrimenti l’invocazione della libertà dei “no-tutto” contiene
un qualcosa di “sospetto”, che puzza per mille miglia di un miserrimo interesse
personale o di gruppo. Quei signor “NO” a tutto spiano di quale libertà
discettano, invocano? Ne ha ben scritto – “La
libertà è a nostro carico” -, della libertà tanto invocata in queste
giornate ottobrine, non prima certamente, ché si sarebbero sprecate tintarelle
e quant’altro, Michele Serra sempre sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di
ottobre, individuando alcuni degli aspetti (vedesi il “complottismo” planetario
denunciato dai “no-tutto”) che hanno certamente contribuito a promuovere e
diffondere il “no-tutto” generalizzato ed a buon mercato: (…). La dipendenza dai social,
specie per quanto riguarda la permeabilità ai discorsi violenti e/o cretini,
sarebbe subdolamente indotta a scopo di lucro dal perfido Zuckerberg, così come
il tabagismo è colpa dei colossi del tabacco, la tossicodipendenza colpa dei
narcos, eccetera. La domanda è quanto può aiutarci, per sentirci più liberi e
meno condizionati, dare sempre la colpa agli altri. Se ogni genere di
dipendenza, di soggezione, di credulità, è imputabile a manovratori occulti, a
speculatori cinici, scompare nel nulla l'idea che esista una libertà di scelta;
nonché una responsabilità individuale. Se uno trascorre la vita appeso al suo
smartphone e non trova il tempo di guardare le nuvole, o di fare una
passeggiata, certamente è patologico. Ma di questa patologia non è solamente la
vittima: ne è anche l'autore. La dipendenza esiste, è un problema grave, nel
mondo migliaia di medici, psichiatri, terapeuti la studiano e la combattono. Ma
se passa il concetto che (cito Altan) ogni cazzata che facciamo ha sempre un
mandante, e il nostro ruolo nel mondo è sempre e solo quello delle povere
vittime, che speranza abbiamo di uscirne vivi? Togliete all'alcolista la
facoltà di bere di meno, al tabagista quella di fumare di meno, al ludopatico
di tenersi lontano dalle slot-machine, al digitatore incallito l'idea che può
sopravvivere anche senza i social, e gli avrete tolto ogni speranza.
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