Ha scritto Michele Serra in una
Sua corrispondenza – “La bulimia
dell’homo sapiens” – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”
dell’8 di ottobre 2021: (…) …il tema, sia pure trattato con accenti
molto diversi, è lo stesso: la bulimia del genere umano. Non si tratta di un
tema “etico” (o meglio, lo è solo di rimbalzo). Si tratta prima di tutto di un
tema logico-razionale, direi scientifico, che mi permetto di riassumere così:
in una bottiglia da un litro può entrare un litro e mezzo di liquido? (…). Una
osservazione più attenta dei dati a disposizione lascia pensare di no: la
bottiglia da un litro rappresenta il Pianeta; il litro e mezzo, già adesso,
siamo noi, con tutto il nostro ingombro, le nostre emissioni, la nostra
dismisura. Ovviamente è lecito pensare che la tecnologia, della quale oggi
tendiamo a dare una lettura prodigiosa (vedi Elon Musk), riesca a deformare la
bottiglia aumentandone la capienza. Il progresso non è un’opinione, e le
conquiste di Homo sapiens (qualcuna effettivamente prodigiosa, vedi la microchirurgia,
vedi la connessione planetaria del web) rendono lecito sperare in qualche
novità rilevante. E dunque, (…), dobbiamo accogliere con grande favore la
riconversione green, che con è al tempo stesso una foglia di fico e una grande
possibilità, spetterà alla politica far prevalere l’una o l’altra funzione. Ma
non c’è dubbio che nessuna riconversione virtuosa possa prescindere dalla cura
della nostra ingordigia. Di tutto: consumi, cibi, oggetti, beni utili e beni
inutili, quantità smisurate di prodotti spesso inutilizzati che riempiono le
nostre case come feticci. Se la decrescita felice è solamente una teoria, la
crescita infelice è spesso sotto i nostri occhi, e la superfetazione del genere
umano non aiuta, oggettivamente, a essere ottimisti. Megalopoli di trenta
milioni di persone – quasi sempre contadini proletarizzati – senza servizi,
spesso nemmeno le fogne, discariche grandi come catene montuose (i nostri
rifiuti elettronici in Africa e in Asia), continenti di plastica che galleggiano
in mezzo al Pacifico. Giorni fa ho rinverdito (a proposito di green) uno dei
temi costanti di questa rubrica, che è l’incomprensibile oblio che ha
cancellato da quasi tutte le agende politiche (anche quella della benemerita
Greta) la questione demografica. Il numero degli esseri umani è di per sé un
gigantesco problema di squilibrio ambientale. Ogni ovvia considerazione sulla
profonda differenza di reddito, e di impatto ambientale, tra ricchi e poveri,
sposta il problema solo di poco: se anche il reddito si redistribuisse più
equamente, la somma dei fattori inquinanti non diminuirebbe di una virgola, e
anzi. Riassumendo: la fiducia nella scienza, nella tecnologia, nell’ingegno
umano non può diventare un alibi per ignorare i famosi limiti dello sviluppo,
specie se questo alibi serve semplicemente per rifare il maquillage ai
fatturati. (…). Tratto da “Aiuto,
c'è uno spot che vuole farci innamorare” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 12 di ottobre dell’anno
2013: Come dice il cantautore francese Alain Souchon:
«Ci vengono inflitti desideri che ci affliggono». Ma più delle iperboli
della pubblicità, da temere è la logica del consumo. Non dobbiamo esorcizzare
la pubblicità, perché è uno dei fattori non secondari che sostiene la stampa,
senza la quale avremmo meno informazione, e di conseguenza meno democrazia. Non
è infatti democratico un paese dove non si legge e non ci si informa, per cui
le scelte o non avvengono, come nel caso dell'astensionismo elettorale, o
avvengono su base emozionale senza nessuna considerazione e vaglio critico.
Detto questo, non è apprezzabile quella pubblicità che va a solleticare le
pulsioni primarie, come la sessualità e l'aggressività, abbinando il prodotto
da vendere alle forze oscure del sottofondo della nostra anima, bypassando il
giudizio sul valore del prodotto, sulle sue qualità e utilità. Non mi pare
questo il caso di una strategia pubblicitaria, che (…) punta sulla dimensione
affettiva, invitando a "innamorarsi" del prodotto perché «ti migliora
la vita» e questo «significa tutto». Qui ci troviamo semplicemente in presenza
di un'iperbole, perché non è detto che «il miglioramento della vita significhi
tutto», lo sappiamo per esperienza, e soprattutto non è detto che l'acquisto
per esempio di un prodotto Apple «migliori la vita» rispetto all'acquisto di un
prodotto analogo di un suo concorrente. Di fronte alla pubblicità dobbiamo
piuttosto porci un altro ordine di problemi. Viviamo in un'economia che ci
prevede come produttori e consumatori, e che trova la sua giustificazione nel
fatto che se non si consuma si ferma la produzione, con conseguenze
catastrofiche sull'occupazione, come constatiamo quotidianamente in questa
stagione di crisi. Ma abbiamo davvero bisogno di tutte le cose che la
pubblicità ci offre? Probabilmente no, e allora non ci si dovrà limitare a
produrre merci per soddisfare bisogni, ma sarà necessario produrre nuovi
bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. E se di una
cosa non si sente propriamente il bisogno? Allora interviene la moda a rendere
obsolete le cose che l'anno precedente erano assolute novità, che non si
potevano non acquistare. Per la moda, infatti, le cose che sono ancora
"materialmente" utilizzabili, l'anno successivo diventano
"socialmente" inutilizzabili e quindi bisognose di essere sostituite.
Non parliamo poi dei pezzi di ricambio dei nostri elettrodomestici. Quante
volte ci siamo sentiti dire che costano di più o almeno quanto comperare un
elettrodomestico nuovo? Io in tutto questo vedo una dimostrazione concreta
dello stile nichilistico della nostra economia, che a me pare regolata dal
"principio della distruzione", dove la distruzione non è "la
fine" naturale di un prodotto, ma "il suo fine". Leggevo (…)
qualche mese fa un bellissimo servizio sul tempo di vita di molti prodotti
informatici programmati per un certo tempo e non oltre. Veniva da pensare che
se la data di scadenza non riguarda solo gli alimentari, ma tutti i prodotti,
allora non aveva torto Günther Anders a scrivere: «L'umanità che tratta il
mondo come un mondo da buttar via, finirà col trattare anche se stessa come
un'umanità da buttar via». Tornando alla pubblicità, che con i suoi prodotti si
incarica di "migliorare la nostra vita" e renderci più felici,
consiglierei di leggere un libro di Frédérich Beigbeder,
famoso pubblicitario francese, che un certo giorno ebbe un ripensamento e
pubblicò un libro, tradotto da Feltrinelli col titolo Euro 13,89, in cui
scrive: «Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello
che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete
mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai
nuova. C'è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi
sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra
felicità, perché la gente felice non consuma».
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