"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 marzo 2025

Lastoriasiamonoi. 41 Gustavo Zagrebelsky: «C’è un tempo per ogni cosa, il tempo per l’unione e un tempo per le differenze. Ora è il tempo dell’unione, poi verrà quello delle differenze. Sarebbe un errore confonderli».


(…). Radunate e assemblee si svolgono in piazza, ma sono cose opposte. Le radunate le conosciamo bene. Sono strumenti di acclamazione di massa, organizzati dall’alto a sostegno dei despoti e a intimidazione del dissenso: (…). Altrettanto bene conosciamo le manifestazioni convocate dal basso per dare voce al dissenso: per esempio, Occupy Wall Street e gli “Indignados” della Puerta del Sol di Madrid contro la grande finanza, i giovani delle “primavere arabe” contro le autocrazie islamiche e, risalendo indietro, le proteste di massa contro il governo Usa e la sua guerra in Vietnam. La differenza politica sostanziale è nell’“ordine del giorno”. L’ordine del giorno delle radunate è semplice, chiaro e tassativo: la celebrazione. Delle assemblee, al contrario, può essere generico e solo iniziale, venendosi a precisare nel corso dei lavori. «Io vado in piazza per questo; tu per quest’altro; un terzo per quest’altro ancora, ma tutti ci andiamo». C’è contraddizione e dovremmo stare tutti a casa? No, se siamo uniti su una cosa comune, per così dire primordiale, la liberazione da un male comunemente avvertito e insopportabile. Questo è solo un punto di partenza su cui si può concordare: un rifiuto. È già molto perché da lì possono aprirsi molte strade che, in embrione, stanno nella negazione di ciò che rifiutiamo. La negazione del negativo è l’apertura alla affermazione. (…). Rifiutata la guerra, ci sono molti modi per costruire la pace. Ci sono i non-violenti, i pacifisti gandhiani e tolstojani, i “beati costruttori di pace” che si ispirano al messaggio evangelico, gli obiettori di coscienza e i renitenti alla leva, coloro che lavorano per l’uguaglianza, la giustizia, la comprensione e la collaborazione tra i popoli, i federalisti che osteggiano la sovranità degli Stati, gli ecologisti per i quali la terra è “bene comune”, gli animalisti che rispettano ogni forma di vita, i cosmopoliti che combattono i nazionalismi, i movimenti per i diritti civili, il rispetto della vita animale e vegetale, coloro che si oppongono a ogni “suprematismo” razziale o culturale e alla legge del più forte, di cui la guerra è la più terribile conseguenza, coloro che confidano nella “pace attraverso il diritto”; infine, o forse all’inizio di tutto, coloro che considerano i conflitti il risultato estremo e fatale della logica dell’accaparramento mercantile nei rapporti tra popoli, nazioni e Stati. Sono tanti, poi, coloro che, senza ragionamenti filosofici o politici, semplicemente hanno la guerra in orrore, e hanno invece in onore istintivamente il comandamento “non uccidere”, non distruggere, non violentare. Sono (siamo) in tanti, sconcertati a guardare un mondo che mai come oggi è dominato dalla guerra: guerra che si fa, che si minaccia, da cui ci si difende ancora per mezzo della preparazione di altre guerre. (…). Tutte le motivazioni, per molti rivoli, possono confluire in un movimento per la pace che tenga insieme le diversità. Occorre, però, saper distinguere i tempi. C’è un tempo per ogni cosa, il tempo per l’unione e un tempo per le differenze. Ora è il tempo dell’unione, poi verrà quello delle differenze. Sarebbe un errore confonderli. Questo sarebbe ciò che si chiama, precisamente, settarismo. Ricordiamo che se le forze politiche antifasciste negli anni ’43-’45 avessero fatto questa confusione, la resistenza al fascismo sarebbe morta sul nascere. Fin qui la pace. E l’Europa? (…). L’Europa è un’aspirazione del movimento federalista che ha coltivato e ha tenuta viva l’idea originaria: non uno “Stato in grande” della stessa pasta di cui erano fatti gli Stati dell’Ottocento e del Novecento, gli Stati sovrani il cui imperativo era la potenza: “Stati di potenza” è il loro nome, in perenne competizione tra di loro, sovrani dentro e fuori i propri confini, armati per difendersi dalle mire altrui e coltivare le proprie. La guerra è nell’essenza di questi Stati. Essi, la pace, la mercanteggiano perché è una merce come un’altra e, per interesse e convenienza, l’acquistano minacciando guerra o la conquistano facendola. Questo orrendo simulacro di pace contiene violenza, distruzione e morte e può condurre, piano piano o in un colpo solo, per decisione, errore o imprevisto, alla “pace dei cimiteri”. I saggi di Ventotene, (…), avevano ben chiaro che il pungiglione sta nella sovranità e che la via della pace sta nel renderlo inoffensivo. Moltiplicare i signori della guerra è davvero il modo per neutralizzarlo e percorrere le vie della pace? Ne esistono altri? Altri, diversi dalla crescita degli arsenali militari, diversi dall’occupazione del pianeta con potenze armate fino ai denti (atomici) che, sentendosi reciprocamente minacciate da altre potenze, si guardano in cagnesco sulla base del sospetto e, perciò, per non soccombere, ingaggiano una folle corsa al potenziamento dei propri armamenti? L’Europa tenta di prendere le distanze o si sta semplicemente omologando? I suoi dirigenti sempre sorridenti sembrano ignari. Sembrano accettare che la guerra sia il sottinteso necessario d’ogni possibile politica, anche della politica per la pace: si vis pacem para bellum, il suicida motto ritornato in auge dopo che immani tragedie sembravano averlo esorcizzato. Sembrano privi di altre idee, di strategie per la propria sicurezza che facciano leva sulla forza diffusiva della pace senza guerre: una forza che in questo momento sembra dimenticata e aspetta di essere suscitata. (…). (Tratto da “La piazza dalla parte giusta” di Gustavo Zagrebelsky)

Piazze&Potere”. “I guerrieri d’Europa e la pace”, testo di Antonio Scurati: Se vuoi la pace, prepara la pace. Parole sacrosante. Le condivido a pieno. E aggiungo: se vuoi preparare la pace, sforzarti di comprendere la guerra. Questo sforzo mi ha procurato da parte di alcuni – a me come a molti altri – l’accusa infondata e infamante di essere un “guerrafondaio”. La questione personale è di scarsa importanza ma ne porta con sé una generale che richiede un chiarimento cruciale. Ottanta benedetti anni di pace in Europa occidentale hanno trasformato la guerra in un tabù, sottoponendo la parola a una interdizione lessicale (chi la pronuncia viene accusato di fomentarla), ad aberranti eufemismi (“guerre umanitarie“) e la cosa stessa a rimozione: la guerra, contenuto psichico disturbante, è stata allontanata dalla nostra coscienza. Non la abbiamo attivamente ripudiata, come suggerito dalla nostra meravigliosa Costituzione; la abbiamo inconsciamente rimossa. A questo ci siamo limitati. E, infatti, le guerre non sono per niente cessate. Sono state semplicemente respinte ai confini del nostro mondo e ai margini oscuri della nostra coscienza e, lo ribadisco, combattute da altri anche in nostro nome (alleati, eserciti professionali, popoli satelliti, tecnologie missilistiche). Basti pensare ai bombardamenti aerei di Belgrado nel 1999 o alle due sciagurate guerre del Golfo. Poco alla volta, siamo diventati guerrieri da salotto, inerti consumatori dell’osceno spettacolo della distruzione, siamo diventati spettatori della guerra. Sto forse suggerendo che dovremmo tornare ad essere veri e propri guerrieri? Niente affatto. Mi è stato rimproverato di aver scritto che anche in Europa, e fino alle guerre fasciste, per millenni la guerra “non è stata solo il dominio della forza, è stata anche il luogo di genesi del senso”, di aver ricordato che i nostri avi hanno cantato nella guerra eroica “l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità nel quale si sono generate le forme della politica, i valori della società, si sono decisi i destini individuali e collettivi”. Stavo rimpiangendo e riaffermando quell’idea sciagurata? Niente affatto. Quella storia millenaria muore nelle pianure d’Europa seminate di milioni di cadaveri di due guerre mondiali e io sono pienamente convinto che non possa e non debba essere riesumata. In quel testo mi sforzavo di comprendere l’ideologia bellica occidentale, non certo di riaffermarla. Attribuire a me quella visione è un equivoco totale. Ma è un equivoco che va meditato. Oggi il terribile spettro della guerra si aggira nuovamente per l’Europa. E noi dobbiamo fronteggiarlo. Non possiamo più rifugiarci in una comoda rimozione. Diventa, perciò, più che mai importante comprendere l’ideologia bellica occidentale, il mito della guerra su cui si fonda e che attribuisce allo scontro armato frontale la doppia virtù di essere rivelativo e decisivo, la sedicente capacità di rivelare le identità dei combattenti e di risolvere i conflitti una volta e per tutte. È un mito sciagurato, un sanguinoso desiderio di luce smentito migliaia di volta dalla storia e dai campi di battaglia eppure mai abbandonato. Decostruire, demistificare, smascherare quel mito è compito degli uomini di pace. Per farlo, bisogna però prima capire. Capire la guerra e capire la pace. Non si comprende l’una senza comprendere l’altra. Oggi più che mai è fondamentale rendersi conto della forza di seduzione della mitologia bellica, al pari della seduzione fascista, perché, purtroppo, quei miti sono ancora tra noi, sono di nuovo tra noi e, soprattutto, sono tutt’intorno a noi. Noi europei occidentali ce ne siamo finalmente liberati ma altri ancora vivono e uccidono nel solco di quella ideologia e mitologia bellica (i soldati imperialisti di Putin, certo, ma anche quelli di Netanyahu che s’illudono di portare la luce della guerra aperta nei cunicoli tenebrosi dell’orribile massacro terroristico compiendo massacri più grandi). È importante comprendere e demistificare perché anche per noi la mitologia della guerra rivelativa e decisiva è servita a rappresentare, a motivare e a giustificare il ricorso alle armi ben dopo la fine della Seconda guerra mondiale - da Baghdad a Kandhaar, da Belgrado a Tripoli e, per alcuni aspetti, anche a Kiev – con il solo risultato di generare altra distruzione, altra violenza, altre guerre. Soprattutto, è importante comprendere e demistificare l’ideologia bellica perché la guerra non è mai finita. E di certo non finirà domani. L’abbandono dell’antica via del guerriero – salutata senza nostalgia, senza ritorno – ci obbliga a cercare una nuova via. Ci chiama all’impegno, alla responsabilità, all’inventiva e, sì, ci chiama anche alla lotta. Il pacifismo fanatico, irrelato e acritico, è un atteggiamento irresponsabile, talvolta perfino complice. Ma il pacifismo critico, maturo e consapevole è una irrinunciabile conquista culturale dell’Occidente europeo. Io, proprio perché studioso delle ideologie guerriere e narratore delle guerre fasciste, mi dichiaro pacifista. Ma, se non vogliamo che dichiarazioni del genere restino irresponsabili e complici esercizi retorici, dobbiamo prepararci a batterci. Lo ribadisco: dobbiamo ritrovare il senso della lotta; della lotta, sottolineo, non della guerra. Spirito combattivo e spirito guerriero non sono la stessa cosa. Anzi, nel nostro caso sono addirittura contrapposti. La democrazia liberale, la giustizia sociale, i diritti umani, ecco alcuni dei fondamentali valori europei la cui difesa oggi richiede il nostro impegno, la nostra intelligenza critica, la nostra lotta. E non può essere una difesa guidata dalla miopia dello sguardo nazionale o, addirittura, nazionalista. Deve essere una difesa comune a tutti gli europei che condividono quei valori quali ragioni di vita, di buona vita. Difesa comune non significa riarmo, significa risveglio. Troppo a lungo abbiamo sonnecchiato nei nostri salotti, agiati, terrorizzati e protetti. Troppo a lungo abbiamo disconosciuto le pretese, illegittime eppure incombenti, della realtà, al riparo sul lato incruento dell’arma da fuoco impugnata da altri. Ci sono momenti nei quali la politica fa la storia. Questo è uno di quelli nei quali è la storia a dover fare la politica. Noi europei non siamo chiamati a riarmarci, siamo chiamati a reinventarci. Non nel solco della tradizione bellicista ancestrale ma in quello del pacifismo attivo, militante e antifascista nato in Europa sull’isola di Ventotene negli anni della Seconda guerra mondiale. Un esercito europeo unitario di pace, democratico, esclusivamente difensivo, affiancato ad apparati specializzati nella soluzione diplomatica dei conflitti, non in competizione ma al servizio del welfare, non culmine ma fondamento del lungo, incerto ma necessario processo di unificazione politica dell’Europa. Ecco, questa mirabile invenzione riempirebbe il vuoto lasciato dalla benefica estinzione dei guerrieri europei. Se non lo riempiremo noi quel vuoto, altri lo faranno. E non in modo pacifico.

N.d.r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati – in occasione della manifestazione per l’Europa indetta per domani in “Piazza del popolo” a Roma – dal quotidiano “la Repubblica” di oggi, venerdì 14 di marzo 2025.

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