Tratto da “I
Karamazov, il denaro e il sangue di Draghi” di Massimo Fini, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” di oggi 27 di ottobre 2021: Sono di madre russa e più
invecchio più mi sento russo e sempre meno italiano. Sono, oserei dire, un
Karamazov. Ho tutte le diverse e contraddittorie anime dei tre protagonisti del
capolavoro di Dostoevskij: l’istintualità e la violenza di Dimitri, nel cui
sottofondo, oltre all’ingenuità, c’è il masochismo che è una delle
caratteristiche fondanti dell’intero popolo russo, la disperata razionalità di
Ivan (“Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”), la spiritualità di
Alioscia portata all’estremo, perché tutto è estremo nelle passioni del popolo
russo che si autocolpevolizza e si autoassolve in continuazione. Dimitri, Ivan,
Alioscia non sono che tre aspetti dell’anima di Dostoevskij e dei contrapposti
sentimenti che la compongono. Il popolo russo è mistico. E nemmeno il comunismo
era riuscito a cambiarlo. Bastava solo grattare un po’ la superficie e subito
saltava fuori il russo di Dostoevskij. Quando ero in Unione Sovietica
nell’autunno del 1985, quella del primo Gorbaciov, a Mosca erano aperte solo
tre chiese ortodosse. Se vi entravi eri preso dall’emozione, l’emozione della
loro emozione. La religione ortodossa è presa sul serio da quelle parti, come
del resto, poniamo, in Romania, e ha poco a che fare con lo stanco rito
cattolico della messa domenicale, mentre al pomeriggio le chiese sono deserte o
quasi, frequentate solo da tre o quattro vecchie strapenate terrorizzate dalla
morte. La stessa emozione che avevo provato nelle chiese di Mosca, la ritrovai
molti anni dopo a Teheran alla funzione del Venerdì. Gli islamici, il lettore
lo sa, si mettono proni, il capo appoggiato al terreno e il culo all’aria, in
una posizione oggettivamente ridicola a un occhio occidentale. Ma anche lì, io
che non sono credente, mi emozionai della loro emozione. In me ha sempre
giocato un ruolo fondamentale la contrapposizione fra l’istintualità di Dimitri
e la razionalità di Ivan, purtroppo ha quasi sempre vinto la seconda tranne che
in due o tre occasioni in cui, in preda all’ira, avrei potuto tranquillamente
uccidere un uomo. (…). Quello che non è riuscito al comunismo è riuscito, a
quanto pare, al capitalismo almeno a giudicare dai turisti russi di oggi che
sono griffati dalla testa ai piedi in modo sgangherato, una scarpa e una
ciabatta. La volgarità non è mai appartenuta a questo popolo, in ogni russo,
per quanto agli stracci, cova un principe Stavrogin. Non ha alcun concetto
dell’investimento, il denaro vale sempre meno di una buona occasione per
spenderlo o, meglio ancora, per buttarlo via. Non è un caso che lo stesso
Dostoevskij dilapidasse in vari Casinò d’Europa, in particolare in quello di
Baden Baden, il denaro che racimolava faticosamente scrivendo un articolo al
mese. I fratelli Karamazov sono un romanzo d’appendice, per quanto a noi oggi
possa sembrare incredibile nascono così. Insomma il russo, almeno finché è
rimasto tale, è un passionale, un estremista delle passioni. Che cosa ho io a
che fare con quelle “anime morte”, per restare in tema, che formano in gran
parte il popolo italiano di oggi? (…). Ma qui sta il punto. Noi occidentali siamo posseduti dal denaro, da questa
concretissima astrazione che informa tutta la nostra vita. Il Dio Quattrino
è l’unico idolo, il solo valore unanimemente riconosciuto. Ma a sua volta il
denaro non è che la sovrastruttura di un sentimento più profondo che rende
possibile e trionfante il capitalismo: l’invidia. Ludwig von Mises, che è uno
dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo, lo ammette
in modo esplicito ne La mentalità anticapitalistica: l’operaio invidia il
capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia
l’amministratore delegato, l’amministratore delegato invidia il proprietario
che guadagna un milione di dollari e costui quello che ne guadagna tre. È un
processo che non ha mai fine e che ci riguarda tutti Salito un gradino si deve
farne un altro e poi un altro ancora e così via. È il demone della società
dinamica in contrapposizione a quella statica. E quella occidentale è la
società più dinamica che sia mai apparsa nel corso della Storia. Ma a parte che
l’invidia non è un sentimento propriamente nobile e che fa soffrire chi ne è
preso, in questo modo l’uomo non può mai raggiungere un momento di tranquillità,
di riposo, di equilibrio. È sempre spinto ad andare avanti verso un fine di
fatto irraggiungibile, come al cinodromo i cani levrieri, fra gli animali più
stupidi del Creato, inseguono la lepre meccanica, coperta di stoffa, che per
definizione non possono raggiungere perché è posta davanti al loro muso proprio
per farli correre. E così siam noi. Oggi. Che si sarebbe andati a finire in tal
modo lo aveva capito Dostoevskij già nel 1879, anno in cui pubblicò I
Karamazov, quando fa dire allo stàrez Zòsima: “Concependo la libertà come una
moltiplicazione e una rapida soddisfazione dei bisogni, stravolgono la propria
natura, giacché ingenerano in loro stessi una moltitudine d’insensati e stupidi
desideri, d’insulsissime abitudini e fantasie. Non vivono se non per l’invidia
che si portano l’un l’altro”.
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