Ha scritto Barbara Spinelli nell’incipit del Suo “I miopi signori della necessità”, pubblicato
su «il Fatto Quotidiano» di sabato 9 di ottobre 2021: «(…): questo non è tempo di sperimentazioni, di
politiche del possibile, di populismi e sovranismi. Tanto meno di rivoluzioni e
assalti ai Palazzi del potere. Urge - (…) - “un terzo tipo di uomini: gli
Uomini della Necessità”».
Orbene, questo “sgarrupato” paese ha sempre avuto necessità di uomini che siano
“diversi” dal resto degli umani. Come non pensare a quegli uomini definiti
della “provvidenza”? A cominciare dall’uomo del ventennio “nero”
per giungere a quell’altro della famosissima “discesa in campo” definito
da un don Giussani, per l’appunto, “uomo della provvidenza”. Ed è
quanto dire. Ha scritto Michele Serra in “Cerimonie”,
Feltrinelli editore (2002): «(…).
Questo paese pullula da sempre di spiriti liberi che praticano nella più facile
indisciplina le loro personali secessioni da questo e quel potere, che
modificano statuti e convenzioni solo nello scenario platonico del loro
“carattere”. Di questi caratteristi è pieno ogni bar e ogni rione d’Italia,
dove da sempre nessuno è disposto a “farsi fregare” da una qualsiasi
costruzione normativa o culturale o ideale, e pare vile e debole acconciarsi a
un qualche ordine. Gli italiani hanno quasi tutti facce da fuggiaschi. I loro
sguardi intelligenti, la loro complice mimica paiono vibrare di un lunghissimo
scampato pericolo, braccati per generazioni da ogni sorta di autorità e sempre
imboscati. Logico che questa sola qualità largamente nazionale – sottrarsi a
tutto – sia divenuta ragione di ostinata identità. E il peggio è che questo vizio
atavico è in odore di virtù: lo si capisce dai sorrisi che si scambiano, gli
italiani, quando si riconoscono nelle rispettive incapacità di compromettersi
fino in fondo con un sistema di pensiero appena più complicato e arduo del loro
così spontaneo adeguarsi alla vita. Sempre pronti a promuovere questa speciale
inettitudine al rango nobile della ribellione come se avessero sperimentato
fino in fondo, e quindi ripudiato, quei rischi intellettuali che invece non si
sono mai sognati di affrontare. (…)».
Scrive di seguito Barbara Spinelli sui temi del giorno: Nel
regno della Necessità la storia si chiude, la scelta è obbligata, lo scrutinio
universale è un esercizio irrilevante, le astensioni al voto diventano
addirittura una risorsa (come scrive Travaglio), e il tecnico sostituisce il
politico perché l’obiettivo non è di scegliere tra linee diverse su cui il
popolo si è espresso ma di applicare l’unica legge (economica, finanziaria,
climatica ecc.) rivelatasi universalmente valida. Rigore e produttività, crescita
e stabilità: nel quadrangolo perfetto (…) non figurano né la giustizia sociale
né il superamento delle disuguaglianze abnormemente dilatate, non sia mai detto
che dal quadrangolo si passi a geometrie più complesse e gradite. La sovranità
è un capitolo a parte: solo porsi la questione di chi ha il potere di decidere
e a quale livello (nazionale, europeo, Alleanza Atlantica su guerra e pace) ti
tramuta in idra sovranista. Quando sono interrogati, gli uomini della Necessità
ammiccano benevoli, assicurano che naturalmente ci pensano tanto: alla
giustizia sociale, ai costi sociali della transizione ecologica. Ma dirlo
spontaneamente meglio no, e farlo non sia mai. Quanto alla sovranità, è materia
incandescente che non si nomina. “Un ange passe”, dicono i francesi: pare passi
un angelo muto, ma è imbarazzo d’un attimo. Nasce così la vulgata secondo cui
le amministrative avrebbero sgominato populisti e sovranisti: due termini
imprecisi escogitati per screditare chiunque si prefigga di dar voce e
rappresentanza alle classi popolari, al loro scontento, alla loro rabbia, e
soprattutto alle loro attese; o si proponga di sollevare il problema della
sovranità, cruciale in tempi di globalizzazione, pandemie, disastri ambientali.
C’è molto compiacimento nella cerimonia nera che dichiara moribondi i Cinque
Stelle e tramontato il sovranismo inaccuratamente usato da Salvini, anche se
Fratelli d’Italia sta prendendo il posto della Lega. È un compiacimento
chimerico, come sempre accade quando si proclama la prevalenza del regno della
necessità su quello della libertà. Non si calcolano i milioni di cittadini che
avevano puntato sul Possibile – l’assalto al Palazzo evocato da Giuseppe Conte,
“che inizialmente non si può fare col fioretto” – e che non smettono di
immaginare scommesse anche quando disertano la gara. Gli astensionisti
oltrepassano nelle grandi metropoli il 50%, Bologna esclusa: sono soprattutto
elettori delle periferie, delle zone colpite dalle crisi del 2008 e del Covid.
Stando all’Istituto Cattaneo sono voti sottratti non tanto a Cinque Stelle e al
Sud, stavolta, ma al Nord e alla Lega, che subisce un’emorragia compensata a
stento da Giorgia Meloni (un’eccezione è il Veneto di Zaia, sempre in
disaccordo con Salvini sul Covid). Gli astensionisti sono tutti coloro che non
si sentono rappresentati nel quadrangolo (…). Chiedevano giustizia sociale e
non l’ottengono. Chiedevano forze politiche che osassero il cambiamento, e per
questo avevano votato Cinque Stelle nel 2018. Si sono trovati con partiti
afoni, dediti alla schiavitù volontaria, messi ai margini come inutili
rimasugli dall’Uomo della Necessità che è l’attuale Presidente del Consiglio
attorniato da una cerchia di tecnici/consiglieri e sorretto – tramite il
ministro del Tesoro Daniele Franco – dalla Banca d’Italia (divenuta, non
improvvisamente, attore politico italiano di primo piano). Draghi non aspirava
forse a tanto. Si limita a contemplare le peripezie così spesso suicide dei
partiti. Nel frattempo ha fatto capire che le decisioni intende prenderle lui,
in una maggioranza spuria, presumendo che i vari partiti e specie i più
riottosi si sbriciolino. A forza di ribadire tale intenzione, e di darle
l’approssimativo nome di pragmatismo (o realismo, o moderatismo), l’elettore lo
ha preso sul serio e ha concluso che il suffragio universale è roba che non
vale la fatica, almeno per ora. Il Partito Democratico di Enrico Letta ha avuto
buoni risultati, soprattutto a Napoli e Bologna. A Roma e Torino si vedrà. A
Torino è sceso rispetto alle elezioni europee (16,4% invece di 19,8%), e il suo
candidato ha ottenuto il 43,8% grazie a molti elettori Cinque Stelle (e perfino
a un certo numero di leghisti). Lo stesso a Napoli, dove l’apporto di Cinque
Stelle all’elezione di Gaetano Manfredi, fortemente voluto dal suo ex premier Conte,
è stato consistente. In attesa del secondo turno si comincia a discutere del
rapporto di forze fra Partito Democratico e Cinque Stelle. L’egemonia sembra
esser passata al Pd, ma non si sa ancora in vista di quale alleanza strategica,
una volta appurato che da solo il Pd va a sbattere. Letta lo sa ma brancola
ancora nel buio, perché vorrebbe mettere insieme Calenda, renziani, Bersani,
Conte e 5 Stelle, sempre in nome del pragmatismo e delle sue necessità. Questi
tuttavia non sono i tempi del pragmatismo e della Necessità (…). Sono tempi di
trasformazione, di tormenti sociali enormi, di indispensabile ritorno dello
Stato nell’economia, dunque della ricerca di uomini del Possibile. Sono tempi
in cui occorrerà rivoluzionare le vecchie certezze economiche e i parametri che
per mezzo secolo esse hanno imposto. (…). Chi dà per morto il populismo – cioè
il bisogno di rappresentare le classi popolari, oggi in gran parte
astensioniste – è come un signore molto miope che per vanità o supponenza si
rifiuta di inforcare gli occhiali. Non vedendo la società che ha davanti,
dunque non vedendo la realtà, dichiara l’una e l’altra irrilevanti, anzi
inesistenti (come Margaret Thatcher nell’87). La società che ha davanti resta
però quella che è: anche se non vota, proprio perché non vota, è un “mondo di
sotto” abitato da classi popolari e ceti medi impoveriti che non scompaiono per
il solo fatto che per rabbia, stanchezza o noia (spesso è la stessa cosa) non
votano più 5 Stelle o non votano più Lega.
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