"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 18 marzo 2025

Lastoriasiamonoi. 43 Domenico Starnone: «Il capitalismo più agguerrito e più avventuristico aveva bisogno di aggiornare il quadro politico ereditato dalla guerra fredda. Berlusconi è stato l’uomo-simbolo della svolta».


Gaza ci insegue. È tra noi. Mentre facciamo di tutto per dimenticarla, per rimuoverla, per lavare la nostra sporca coscienza, ecco che la sua memoria sanguinosa ci afferra, quando meno ce lo aspettiamo. (…). Racconta il Libro dei Giudici che Sansone, andato a Gaza per giacere con una certa prostituta, sarebbe stato sorpreso, all'alba seguente, presso la porta ancora chiusa della città da coloro che lo volevano uccidere. Ma «a mezzanotte Sansone si alzò, afferrò i battenti della porta della città e i due stipiti, li divelse insieme con la sbarra, se li mise sulle spalle e li portò in cima al monte che guarda in direzione di Ebron». I padri della Chiesa interpretarono questa strana storia come una delle tante "figure di Cristo" che insieme nascondono e svelano l'annuncio di futuro che percorre l'Antico Testamento. E dissero che Sansone che porta questi due legni in cima a un monte annuncia Cristo moribondo che porta la croce sul Calvario. E dissero che Sansone che sfonda le porte per liberarsi annuncia Cristo risorto che sfonda le porte dell'inferno per portare in Cielo i patriarchi dell'Antico Testamento, cucendo il vecchio e il nuovo Israele in una prospettiva di rottura e ri-creazione di tutte le cose. E noi, come la leggiamo questa scena, che ci dice che Gaza è da sempre una parte di noi, una delle nostre città, carne della nostra carne? Una Gaza moribonda che porta la sua croce, una Gaza le cui porte serrate nessun Cristo abbatte per liberare quei poveri cristi. Tradendo Gaza, tradiamo la nostra famosa identità: se non scardiniamo quelle porte nessuna resurrezione è possibile. (Tratto da “Aprite quella porta” di Tomaso Montanari, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di marzo 2025).

“Va difesa la libertà politica”, testo della intervista di Annalisa Cuzzocrea allo scrittore Domenico Starnone pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, martedì 18 di marzo 2025: (…). «Siamo spaventati - (…) - pensiamo di essere in un imprevedibile tempo nuovo, ma forse questa è solo la lunghissima coda del secolo che ci ha portato le due guerre mondiali e l’atomica».

Cosa resta del mondo che ci eravamo illusi di costruire dopo la Seconda guerra mondiale, tenendo insieme democrazia, welfare, diritti civili, rispetto delle minoranze, emancipazione femminile? «Non bisogna esagerare con la lode degli ultimi ottant’anni, se no non si capisce più niente. La guerra fredda è stata comunque una guerra durissima e ci siamo trovati spesso sull’orlo dell’abisso. Quanto a democrazia e diritti nessuno ci ha regalato niente, e quel poco che abbiamo conquistato o è deperito per cattiva gestione o ci minacciano a ogni occasione di strapparcelo e buttarlo via. Direi quindi che il percorso dal ’45 a oggi è stato sempre accidentato. Niente si è veramente consolidato, niente è arrivato a un vero pieno soddisfacente compimento».

Il disincanto democratico viene da questo? «Sì, la conseguenza è l’attuale scarsissima fiducia di milioni e milioni di cittadini nell’agire politico. Siamo diventati passivi, solitari ed esposti a chiunque prometta di semplificarci la vita e alleviarci con qualche svago eccitante la fatica di orientarci nel disordine del mondo».

Quando è cominciato? «A partire dagli anni 90 del secolo scorso. Ma forse già negli anni 80, quando è diventato evidente che il capitalismo più agguerrito e più avventuristico aveva a disposizione nuovi strumenti per cavare profitto e aveva bisogno di aggiornare, ora servendosi della sinistra, ora della destra, il quadro politico ereditato dalla guerra fredda. Berlusconi è stato l’uomo-simbolo della svolta. S’è messo a capo di un partito inventato a tavolino, s’è fatto voce del popolo e quindi voce di Dio, ha messo al suo fianco in qualità di gregari i neofascisti decorandoli per i meriti acquisiti durante la guerra fredda e ha dilatato a dismisura la metafora dei lacci e lacciuoli spostandola dalla polemica antiburocratica alle procedure della democrazia».

Rispetto a quelle di oggi, sembra una figura più innocua. «In realtà ha inaugurato un’epoca in cui il potere economico-finanziario e tecnologico non sente più il bisogno di usare una parte politica per poi al momento opportuno sbarazzarsene e usarne un’altra. Berlusconi ha detto: la persona che fa i soldi deve farsi direttamente anche le leggi e dar loro esecuzione, senza mediazioni e senza fastidiosi controlli. L’indegno erede di Berlusconi è Trump. Meloni resta una gregaria».

Cos’è del nostro modo di vita che le sembra più minacciato? «In questo momento quel po’ di welfare che è ancora in piedi. Ma in prospettiva la libertà politica. Quando si comincia a limitare quella, comincia la dittatura».

Armarsi, avere la possibilità di fare deterrenza, è un male necessario? «No, e per cercare di risponderle vorrei tornare a questi ottant’anni. Quel che oggi chiamiamo genericamente deterrenza, sette decenni fa s’è chiamata corsa agli armamenti. Grazie a quella i modi della distruzione e del massacro si sono ulteriormente evoluti, e la forza oggi non è la sciabola al fianco o la pistola sul tavolo o i carri armati o la retorica della difesa dei vecchi e sgangherati stati nazionali, ma i terrificanti arsenali dei due o tre imperi che si stanno preparando da tempo a giocarsi a dadi il pianeta. La scollata Europa rischia di confidare troppo nel ruolo delle armi oggi, e gli esiti dolorosi della vicenda ucraina forse andrebbero esaminati anche da questo punto di vista».

Potrebbe significare dire a Putin che può avanzare liberamente. «Sono tra quelli che pensano che le armi che abbiamo negli spazi nazionali già bastano e avanzano per mettere insieme volenterosamente un esercito europeo. Nessuno degli imperi si spaventerebbe particolarmente se ci armassimo ancora di più. Sono pronti da tempo a piccole guerre nucleari localmente limitate, figuriamoci se si allarmano».

Dieci anni fa avrebbe ritenuto possibile la crescita esponenziale di forze neofasciste e neonaziste? «Sì. La memoria viva dei disastri della guerra dura una settantina d’anni. A tenerci lontano da quei disastri è stato anche il ricordo nitido dei fascismi che li avevano originati, sospingendo il mondo fino alle due bombe atomiche americane sul Giappone. Ma poi ci siamo concentrati sugli affari d’oro delle ricostruzioni, la memoria s’è progressivamente affollata di racconti bellici di genere, videogiochi, negazionismi o opportunismi della propaganda conciliatrice, e si è appannata. Senza dire che i neofascismi sono stati molto utili durante la guerra fredda e piano piano sono stati ricompensati per i loro servigi con una crescente rispettabilità istituzionale. Oggi sono i servi dell’impero di riferimento e preparano nei vecchi stati nazionali lo svuotamento delle democrazie. Ma che cosa succederà, innanzitutto in un’eventuale Europa armatissima, se decideranno di smetterla di fare i gregari?».

Troppi parlano con disprezzo della resistenza ucraina, come se avessimo creato una società incapace di provare empatia per le vittime. Come se rimuovessimo il pericolo di essere vittime un giorno anche noi. Cosa ci succede? «Siamo un po’ tutti vittime di quella tendenza ormai diffusa a pensare che l’unica cosa che conta, sempre, è restare in vita, caso mai calpestando i corpi degli altri per metterci in salvo e seguitare a mangiare, bere e darci piacere. È un sentimento di sé, questo, che ha come conseguenza la certezza che non ci sia mai nessuna buona ragione per sacrificare se stessi. Questo mi pare un altro dei gravi esiti di questi ottant’anni. Gli ucraini sono stati invasi e hanno reagito. Respingere l’invasore a costo della vita non è mai una sciocchezza, è una penosa necessità. Gli errori sono venuti dopo, quando si è pensato di trasformare il gesto che respinge in una guerra sostenuta dagli Usa fino alla vittoria».

Negli Usa l’amministrazione di Donald Trump sta cancellando migliaia di parole dai siti istituzionali. Siamo finiti in una distopia? «L’elenco delle parole vietate è un efficace autoritratto non solo della destra trumpiana ma delle destre di tutto il pianeta. Però non ci perderei tempo, per ora è un bene che i potenti si rendano ridicoli da soli. I divieti sono di giovamento alle parole, ne irrobustiscono i significati. Speriamo che da abusate che stavano diventando tornino a smuovere le teste. E comunque la realtà è lì fuori, non basta cancellare un’etichetta o attaccarne una falsa. Bisogna farci i conti, con la realtà, e i conti non tornano. Come la mettiamo, per esempio, con i tamburi di guerra mondiale e l’incalzare dei disastri climatici? Vogliamo prepararci a devastare definitivamente il pianeta o vogliamo tentare in extremis di salvarlo e salvarci?».

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