“Uomini&Guerre”. “Gli occhi aperti dei disertori e la furia cieca dei soldatini”, testo di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di marzo 2025: “Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno di essi rimarrebbe nelle file”. Citando questa lucida constatazione di Federico II di Prussia, Tolstoj riflette sulla “cieca” obbedienza dei soldati che non trovano il coraggio disertare anche se “nel fondo della loro anima sentono che fanno un atto cattivo obbedendo alle autorità che li strappano al lavoro, alla famiglia e li mandano alla strage inutile”. La disobbedienza dei militari, la rivolta di chi dovrebbe fare la guerra e si rifiuta di farlo: la più taciuta delle virtù, il meno celebrato tra gli eroismi. Non è così in Germania, dove una ventina di monumenti ricordano i disertori: trentamila dei quali furono fucilati durante la Seconda guerra mondiale. Quello di Colonia, inaugurato nel 2009, ha un’iscrizione che lo definisce “omaggio ai soldati che si sono rifiutati di sparare ai soldati, che si sono rifiutati di sparare al popolo, che si sono rifiutati di torturare il popolo, che si sono rifiutati di dare informazioni contro il popolo, che si sono rifiutati di brutalizzare il popolo, che si sono rifiutati di discriminare il popolo, che si sono rifiutati di ridicolizzare il popolo, che hanno dimostrato coraggio civile, mentre la maggioranza taceva e si accodava”. Ma è forse quello collocato a Potsdam, opera dell’artista turco Mehmet Aksoy, il più eloquente sul piano figurativo: in una grande massa di marmo di Carrara è evidente un vuoto, che ha la sagoma di un corpo umano. È il vuoto lasciato dal corpo del disertore che, disobbedendo e fuggendo, si è letteralmente sottratto alla massa. Quasi ognuno di questi monumenti ha avuto una storia difficile, di contestazioni e opposizioni: perché la memoria di chi ha disobbedito punta inevitabilmente il dito contro la maggioranza obbediente, evocando parole simili a quelle famose di Brecht: “Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati | in piedi, di traverso e capovolti.| E il giorno amaro in cui voi siete stati | vinti non è quando ve li hanno tolti, | ma fu quel primo giorno in cui ve li | siete infilati senza altri commenti,| quando vi siete messi sull’attenti | e avete cominciato a dire sì”. Parole preziose, di cui avremmo bisogno come un antidoto nell’Italia di oggi. Pochi giorni fa, Antonio Scurati ha scritto un elogio degli “uomini risoluti a uccidere e a morire”, rimpiangendo i “guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi”, auspicando che noi europei riscopriamo “le ragioni per prepararci, se necessario”, a fare la guerra. Prima di Scurati, a esaltare la guerra erano stati alcuni cantori dell’identità occidentale, da Federico Fubini (“Noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All’epoca dei nostri nonni un caduto era motivo d’orgoglio in famiglia, oggi è considerato inaccettabile”) a Ernesto Galli della Loggia (“Il rapporto con la guerra significa infatti il rapporto con il nostro presente in generale, con ciò che esso è, e insieme indica ciò per cui pensiamo che valga la pena di morire… La riprovazione che ci piace muovere a Israele per il suo uso spregiudicato della potenza, mi chiedo, non è forse solo un modo per cercare di nascondere a noi stessi la nostra impotenza? Per cercare di nascondere la rassegnazione da parte nostra, da parte dell’Occidente europeo, a non avere più alcun ruolo nelle faccende del mondo, al fatto di esserci virtualmente ritirati dalla storia?”). Chi ha composto la pagina di Repubblica dove è apparso l’articolo di Scurati, ha scelto di illustrarla con una stampa cinquecentesca che mostra un gruppo di lanzichenecchi, i terribili mercenari tedeschi che sparsero per l’Italia morte e terrore, arrivando nel 1527 a compiere il terrificante Sacco di Roma: fra le pagine più abiette della storia europea. Così le verità rimosse tornano nel discorso: (…). …nella stessa tradizione occidentale, da Omero in poi, è (…) forte la voce di chi condanna la guerra, di chi ne rifiuta l’oscenità, l’orrore, l’inutilità. Nell’Inno a Marte di età ellenistica un guerriero chiede al dio della guerra il coraggio di non farla, la guerra: “Irradia di lassù la tua amica luce sopra le nostre vite, e la tua forza guerriera: così che io possa scacciare dalla mia testa l’odiosa viltà, e frenare quello slancio fallace del mio animo, e trattenere quella stridula voce nel mio cuore che mi provoca a gettarmi nella guerra agghiacciante. Tu, o beato, donami il coraggio: lasciami indugiare al sicuro nelle leggi della pace, e sfuggire così allo scontro con i nemici, al destino di una morte violenta”. Il coraggio di disertare, di dire (con Hannah Arendt) che “nessuno ha il diritto di obbedire”, di dire (con don Milani) che “l’obbedienza non è più una virtù”. La parte migliore della nostra famosa identità occidentale: la sola che, forse, può permetterci di avere un futuro.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
giovedì 13 marzo 2025
Lastoriasiamonoi. 40 Tomaso Montanari: «La disobbedienza dei militari, la rivolta di chi dovrebbe fare la guerra e si rifiuta di farlo: la più taciuta delle virtù, il meno celebrato tra gli eroismi».
Non è forse un caso che lo scrittore ed
editore Fabrizio Guarducci, formatosi nel pensiero cristiano-sociale di Giorgio
La Pira, abbia conosciuto Guy Debord e aderito al situazionismo. Non è casuale
alla luce del suo ultimo libro, Il richiamo del sentimento (edito da Lorenzo
de' Medici Press), una sorta di romanzo di ricerca spirituale e d'indagine
filosofica che ha al centro il movimento religioso dei Catari, una delle grandi
eresie della storia. (…). Nel suo libro Guarducci narra la ricerca che Elvira,
una studiosa, intraprende sui Catari e sull'attualità del loro messaggio. Chi
erano i Catari? L'Enciclopedia Treccani ci riassume che è "il nome (dal
latino medievale catharus, cioè “puro”) con il quale comunemente sono indicati
gli eretici dualisti medievali (albigesi, manichei, publicani o pauliciani,
ariani, bulgari, bogomili ecc. e in Italia patarini), diffusi soprattutto nella
Francia settentrionale e meridionale nel 13° secolo. In polemica con la Chiesa,
predicavano un rinnovamento morale fondato sull'antitesi tra bene e male,
spirito e materia ed erano organizzati in una vera e propria gerarchia
ecclesiastica". (…). Per Guarducci e la sua Elvira, invece, "si
tratta di trarre ispirazione dai principi di base del catarismo per costruire
una società più giusta. Ad esempio, promuovere la condivisione delle risorse,
sostenere l'uguaglianza di genere e incoraggiare un rispetto reciproco più
profondo sono obiettivi raggiungibili se ci impegniamo collettivamente. I
Catari ci offrono una lente attraverso cui possiamo vedere alternative ai
problemi “che affrontiamo". Il viaggio-ricerca procede attraverso la
figura di Maria Maddalena e testi antichissimi, come un obliato vangelo
gnostico, la Pistis Sophia, dove Cristo dice agli apostoli che cosa succede
agli uomini dopo la morte e che cosa c'è nel cosiddetto aldilà, ma anche un
"misterioso Vangelo di Giovanni l'apostolo, un testo che, se davvero
esisteva, poteva gettare nuova luce sulla spiritualità dei Catari". La
protagonista di questo libro, sovversivamente inattuale rispetto all'orribile
attualità, scopre a un certo punto che "la tradizione della Maddalena,
portatrice della conoscenza, era più diffusa di quanto avesse immaginato, e che
la sua fuga dalla Galilea aveva lasciato tracce in diverse regioni, inclusa la
Francia meridionale, terra dei Catari". Perciò Elvira "trovò conforto
in quella scoperta. La terra dei Catari, con la sua storia di resistenza e di
ricerca della purezza spirituale, sembrava rispecchiare i temi della Pistis Sophia.
I Catari, chiamati anche “perfetti”, seguivano un cammino di illuminazione che
ricordava molto l'insegnamento di Gesù nella Pistis Sophia, dove il maestro
guida i suoi discepoli verso una conoscenza superiore". In un tempo come
il nostro, dove ogni sovversione è vietata, recuperare le antiche eresie vuol
dire essere comunque ribelli all'esistente e sperimentare la possibilità di
conquistare una nuova consapevolezza di sé e del mondo. (Tratto da “Gli eretici cristiani. Alla ricerca dei
Catari, i sovversivi medievali che servirebbero oggi” di Massimo Novelli
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di marzo 2025).
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