Ha scritto Umberto Galimberti in “Il sentimento
oceanico” pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 21
di agosto 2021: (…). Freud apre la sua analisi su Il disagio della civiltà con alcune
pagine di commento alle «opinioni
espresse dal mio stimatissimo amico Romain Rolland», che in una lettera del 5 dicembre del 1927 aveva
esposto a Freud la sua teoria relativa a quel sentimento di partecipazione al
tutto, da lui definito “sentimento oceanico”. Per Freud il sentimento oceanico
è da ricondurre al sentimento infantile di onnipotenza, a cui ricorre il nostro
io quando, non sentendosi all’altezza delle difficoltà che la vita presenta, si
compensa, scrive Freud: «con
il senso di illimitatezza e comunione con il tutto, con cui il mio amico spiega
il sentimento oceanico».
Questo sentimento viene da Freud paragonato alla condizione di quando eravamo
nel grembo materno, quando non avevamo bisogno di mangiare perché eravamo
automaticamente nutriti, non avevamo bisogno di cancellare i brutti ricordi
perché non ne avevamo, né di modificare la nostra sessualità perché ne eravamo
privi, e tantomeno di superare la paura della morte perché non ne avevamo
notizia. Questi benefici che il grembo materno abbondantemente dispensa a
quanti con esso si identificano, sembrano un compenso all’impotenza della loro
identità dagli incerti contorni. (…). (Si) ammette che: «È impossibile accettare
la prospettiva di tornare come prima di nascere. È qualcosa che la nostra
natura aborrisce, non prevede e no consente. Ogni sforzo in tal senso è
velleitario». È la stessa
obiezione che Nicodemo aveva fatto a Gesù che chiedeva di rinascere nell’acqua
e nello Spirito, a cui Nicodemo obietta: «Come può un uomo rinascere? Può forserientrare
nel grembo della madre per essere rigenerato?». E Gesù rispose: «Ciò che è generato dalla carne è carne, e quel che
nasce dallo Spirito è Spirito (Gv.3, 1-6). (…). La nostra nascita dal grembo
materno è qualcosa di incompiuto, diceva Pablo Neruda, e aggiungeva: «È per rinascere che
siamo nati». (…). Tratto
da “Le domande e la vita interiore”
di Enzo Bianchi – già priore della Comunità monastica di Bose – pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” di ieri 4 di ottobre 2021: (…). Per una vita interiore non
occorre percorrere cammini ardui e straordinari, ma pensare, riflettere e farsi
delle domande. Sì, credo che per una autentica vita interiore sia innanzitutto
necessario sapersi interrogare e interrogare gli altri. Antichi testi gnostici,
purtroppo guardati con sospetto dalla grande tradizione cristiana a causa della
loro provenienza "eretica", contengono le domande essenziali ed
eterne. Teodoto (metà del II secolo d.C.), citato da Clemente Alessandrino, si
chiedeva: "Chi siamo? Da dove veniamo? Dove
andiamo? Cosa diventiamo? Da cosa siamo salvati?". E Immanuel Kant ha posto
le tre famose domande: "Che cosa posso sapere?", "Che cosa devo
fare?", "Che cosa mi è lecito sperare?". Sono domande che
dovranno sempre e di nuovo essere poste, nelle diverse fasi della vita, sapendo
che non troveremo mai la risposta, bensì solo risposte parziali e provvisorie.
Le domande che ci poniamo ci spingono ad andare a fondo, a conoscere di più noi
stessi e cosa veramente ci brucia nel cuore, ad ascoltare gli altri, a
confrontarci e a dialogare con loro. Rainer Maria Rilke in una lettera a un
giovane lo invitava ad "aver care le domande per se stesse". Chi non
si fa domande vive alla superficie di se stesso: fatica, emozioni, reazioni,
gioie e sofferenze, tutto succede, tutto annega l'io profondo, tutto appare con
poco senso. Grazie alle domande si intraprende il cammino fondamentale della
conoscenza di sé, che nell'Occidente ha trovato una formulazione sintetica nel
precetto gnôthi sautón, "Conosci te stesso". Tale conoscenza non è
mai piena: ciascuno resta un mistero anche a se stesso e a volte può apparire
addirittura un enigma con ombre e lati oscuri. E tuttavia è assolutamente
necessario sforzarsi di conoscere se stessi, per sapere ciò di cui si è capaci,
i propri limiti e le proprie forze. Avviene così la "ricerca di
senso", questo vero e proprio télos della vita di ogni uomo, anche se oggi
c'è chi asserisce che nella società della tecnica si possa fare a meno di tale
ricerca. Ricerca di senso è ricerca del bene, della felicità che consiste nella
cura e nella realizzazione di sé, ma che non può realizzarsi senza gli altri,
senza il confronto e il tentativo di comunione con gli altri: "mai senza
l'altro"! Non ci può dunque essere vita "altra" senza questa
vita interiore che procuri soggettività, capacità di scelte e di assunzione di
compiti. Solo chi si è esercitato a pensare e a custodire una ricca vita
interiore può sfuggire alla massificazione, alla cattura del consenso,
all'omologazione regnante. E può essere capace di generare pensieri che
inoculano diastasi nel tessuto della società, diastasi che sono sempre nello
stesso tempo di edificazione e di resistenza, di contestazione e di
rinnovamento.
Definire eccezionale questo post è limitativo... È, per me,illuminante, appagante, terapeutico, ricco di linfa, quindi molto prezioso. Grazie e buona continuazione.
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