"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 24 marzo 2025

Lavitadeglialtri. 77 Gustavo Zagrebelsky: «Il mondo si regge su tre cose: verità, giustizia e pace. A me sembra che verità significhi onestà nel guardare le cose per come sono. Non è mai facile, ogni cosa è soggetta a interpretazione, soprattutto in tempi di guerra: non a torto si dice che “la prima vittima della guerra è la verità”, vittima della propaganda».


(…). Mariam Hassouna? Lasciate che vi parli di lei. Mariam avrebbe dovuto compiere tre anni quest’anno. Ha festeggiato il suo primo compleanno il 20 dicembre 2023, nel campo profughi di Nuseirat, dove io e lei eravamo sfollati in una scuola trasformata in rifugio nel centro di Gaza. Era la terza volta che doveva fuggire da casa sua. Io ho incontrato per la prima volta Mariam e la sua famiglia il 18 ottobre, nella mia città natale, Al-Mughraqa. Erano fuggiti dal quartiere di Al-Shuja’iyya, nella parte orientale di Gaza City. Li avevo intervistati nei primi giorni della guerra per un articolo. Allora vivevo ancora a casa mia, non sapevo ancora cosa significasse venire sfollati. Le nostre strade si sono incrociate di nuovo il 30 ottobre, a Nuseirat dov’era fuggita la mia famiglia. Mariam e i suoi erano stati costretti a spostarsi da una scuola all’altra, noi avevamo dovuto abbandonare casa nostra. Quel giorno cercavo un’aula in cui rifugiarmi, ma ogni stanza era già piena di sfollati. Fatima, la nonna di Mariam, ci invitò a condividere il loro spazio. Così siamo finiti a vivere insieme: tre famiglie stipate in un’aula, separate solo da una tenda sottile. Abbiamo sopportato il freddo insieme e mi sono abituata a sentire le risate e i pianti di Mariam giorno e notte. Mia madre e mia nonna la adoravano. Una mattina la nonna di Mariam mi disse che mancavano pochi giorni al suo primo compleanno: era la sua prima nipote, desiderava tanto festeggiarla, ma in guerra non ci sono né torte né candeline. Decisi di aiutarle, nonostante tutto. Setacciai il mercato, trovai farina, cacao e latte, due cucchiai di zucchero. Sostituii il lievito con l’aceto e feci una torta senza uova. La preparai con mia sorella Noor su una fiamma viva, usando una padella invece di una teglia, trasformammo le piccole candele che usavamo per illuminarci di notte in candeline. Mia sorella minore Jana chiamò a raccolta gli altri bimbi sfollati della scuola. Non dimenticherò mai lo sguardo scioccato della madre di Mariam quando ha visto la sorpresa. Sono entrata con la torta, con dietro un coro di bambini che cantava “buon compleanno, Mariam”. La nonna piangeva e cantava. Per molti di noi quello era il primo sorriso che facevamo da mesi. L’altro giorno mia madre mi ha informato che Mariam se n’è andata. Ci ho messo un po’ per capire: lei e tutta la famiglia sono stati uccisi in un bombardamento che ha colpito casa loro a Al-Shuja’iyya. L’unica sopravvissuta è la zia 15enne, Asmaa. Mi fa male al cuore ricordare Mariam. Le portavo latte, pannolini, vestiti, cibo e donazioni che ricevevo per aiutare le famiglie sfollate. Ricordo che andai a trovarli nella loro tenda quando siamo stati sfollati a Rafah. Sua nonna mi tagliò i capelli, lì. Ricordo di averli chiamati quando ci siamo spostati a Khan Younis, ricordo l’ultima conversazione con suo zio Amer, che mi ha chiamato dopo il cessate il fuoco per sapere se stavamo bene. Ricordo di aver incontrato l’altro zio, Ahmed, una settimana fa nel nord di Gaza, quando sono andata a trovare mia nonna. Mariam è morta perché il mondo non l’ha vista, come non ha visto gli oltre 300 bambini uccisi a Gaza negli ultimi giorni. È sopravvissuta al genocidio una volta, non la seconda. La storia di Mariam, come tante altre, non è stata raccontata perché il mondo ha scelto di metterci a tacere. Chi riporterà indietro Mariam? Chi ricorderà la sua famiglia? Chi consolerà l’unica sopravvissuta?
(Tratto da “Mariam e la festa in tenda: uccisa con la sua famiglia” di Aya Ashour).

«Preferisco una pace ingiusta alla “morte giusta” di innocenti», testo della intervista di Silvia Truzzi a Gustavo Zagrebelsky: (…). …Torino accoglie un’edizione di “Biennale democrazia” dal titolo cruciale: Guerre e paci, un Tolstoj al plurale. Come del resto era plurale lui, il conte che aveva combattuto nella guerra di Crimea, era diventato famoso per Guerra e pace ma è stato anche autore di una Lettera per la pace (1910) dove si pone domande che più di un secolo dopo risuonano sinistramente attuali: “Ma come si difenderanno le nazioni contro i loro nemici? Come manterranno l’ordine interno e come potranno vivere senza un esercito?”. Dopo due guerre mondiali e milioni di morti, sembra che siamo da capo. “A differenza delle edizioni precedenti, questa volta il tema sembrava inevitabile, vista la tragica situazione che stiamo vivendo”, spiega Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale.

Professore, che cosa vuole significare questo plurale? «Che non parleremo solo della guerra in senso tradizionale, ma della condizione dell’umanità nelle relazioni tra Stati, società, economie e culture. Discuteremo di guerra armata, ma anche di guerre commerciali, energetiche, informatiche, ecologiche, di genere, di suprematisti di vario tipo; ciascuna combattuta con i propri strumenti».

A Tolstoj era chiara una cosa: una volta avviata la macchina bellica, che porta solo dolore e distruzione, è difficile tornare indietro. E l’Europa si avvia, senza infingimenti e quasi con entusiasmo, al riarmo. «Si parla troppo di armi: è riaffiorato, ma forse non era mai scomparso, quel motto terribile: si vis pacem para bellum. Una massima elaborata ai tempi della pax romana, una pace fondata sul dominio, anche se il concetto era vecchio, forse addirittura platonico. L’idea di armonizzare due opposti e farli convivere come se dovessero esistere insieme è stata sintetizzata in questo calembour che significa non che non si farà la guerra, ma che la pace arriverà dopo aver vinto la guerra. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa ha goduto di decenni di pace, grazie a un equilibrio del terrore tra il mondo comunista e quello capitalista. La pace o, meglio, l’assenza di guerra, si basava sul timore reciproco. Mi armo, non faccio la guerra nella speranza che l’altro abbia paura. Ma può capitare che un’arma nucleare venga lanciata per sbaglio, ad esempio perché le tecnologie di controllo delle armi, sempre più affidate all’intelligenza artificiale, possono cadere in errore. L’equilibrio del terrore non ci protegge affatto dalla guerra. La storia che, come dice Hegel, è un grande mattatoio dimostra che, nonostante tutti gli Stati sovrani si siano sempre armati per paura, i conflitti non sono stati evitati. Ogni parte cerca di avere sempre un’arma in più rispetto all’altra, e questo crea una spirale maledetta, la corsa mondiale agli armamenti. Si innesca una logica perversa dalla quale è difficile uscire; è evidente che il mondo non è mai stato tanto seduto sulle armi quanto lo è oggi».

E le paci al plurale? Si parla molto di una pace giusta per l’Ucraina. «Siamo tutti favorevoli alla giustizia, e quindi anche a una giustizia applicata alla pace. Ma qui c’è una domanda che non amiamo porci: se non siamo in grado di garantire la pace giusta, saremmo disposti a fare la guerra, una guerra definitiva, con le bombe atomiche? È una questione che ha animato il dibattito pubblico in tutto il mondo negli anni Cinquanta. Io – forse lei mi dirà che sono un pusillanime – detesto le guerre. Prima di tutto viene la vita della gente comune e anche quella dei soldati. Trovo piuttosto scandaloso il fatto che, quando si fanno i conti dei morti, si parli del numero di civili e non si consideri quasi mai il numero dei soldati caduti, o li si consideri a parte, in altra categoria. Anche quelle dei soldati sono vite spente. Da un punto di vista morale, potrebbe essere persino peggio morire perché costretti, no? Tornando alla questione della pace giusta, penso che finché c’è vita, c’è speranza: preferirei una pace ingiusta piuttosto che una “morte giusta” per tutti, innocenti compresi. Una pace, per quanto ingiusta, non preclude la possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia».

La sua lectio introduttiva a questa edizione di Biennale s’intitola “Su tre cose si regge il mondo”. E sono verità, giustizia e pace: possiamo ancora dire che la democrazia è la sintesi di questi tre capisaldi? «Questa formula proviene da un trattato di sapienza rabbinica chiamato Avot, sottotitolato La saggezza dei padri. Si afferma, appunto, che il mondo si regge su tre cose: verità, giustizia e pace. A me sembra che verità significhi onestà nel guardare le cose per come sono. Non è mai facile, ogni cosa è soggetta a interpretazione, soprattutto in tempi di guerra: non a torto si dice che “la prima vittima della guerra è la verità”, vittima della propaganda. Giustizia è una condizione in cui non si verificano radicali disparità di potere, dove ci sono i potenti e gli impotenti, quelli che possono tutto e quelli che non possono nulla, se non ubbidire. Ricorda la citazione dallo scritto di Kant sulla Pace perpetua: prìncipi “ingordi di guerra”? È un’immagine potente. I prìncipi possono essere ingordi di guerra perché la guerra la fanno sempre fare ai deboli, ai vulnerabili, a coloro che vengono sedotti dalla propaganda. La verità e l’uguaglianza di potere creano la pace e sono la base della democrazia. La guerra è oligarchica, perché è decisa dai pochi che ne traggono vantaggio a danno dei molti che la combattono e rischiano la vita; al contrario la pace è democratica perché riguarda tutti».

N.d.r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati su “il Fatto Quotidiano” del 22 di marzo 2025.


 

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