"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 17 marzo 2025

MadreTerra. 40 Renée Bergland: “Mary Shelley e Lord Byron iniziarono a immaginare l'estinzione umana come il punto finale naturale della geologia e scrissero opere distopiche in cui la terra alla fine si riduceva a nient'altro che «un grumo di morte»”.


Occorre limitare le nascite o le nostre esigenze che non conoscono limiti? (…). …in noi esistono due soggettività. Una si chiama "io", e il suo orizzonte è limitato alla propria biografia. è questa la soggettività con cui siamo soliti vivere, progettare, ideare, generare. Rispetto a questa soggettività che ci accompagna per tutta la vita, e a partire dalla quale facciamo tutti i nostri conti, la morte ci appare come un assurdo. Ma accanto all'io, di cui tutti siamo consapevoli, c'è un'altra soggettività, che ci prevede come semplici "funzionari della specie" e per un certo periodo della nostra vita ci correda di una sessualità per la procreazione e di un'aggressività per la difesa della prole. A questa seconda soggettività, cui ci richiamano le riflessioni di Schopenhauer e Freud, non prestiamo mai attenzione: eppure è proprio quella che davvero presiede la nostra nascita, la nostra vita e la nostra morte. Proprio perché non le prestiamo attenzione, Freud colloca la soggettività della specie e le sue esigenze in quell'inconscio, su cui l'io, la coscienza, la razionalità non hanno gran potere. La specie fa vita ovunque le condizioni lo consentono (anche sul ciglio delle autostrade nasce l'erba) e fa morte quando queste condizioni vengono a mancare. Siamo quindi al conflitto tra la sovrabbondanza della vita, che senza alcuna ragione e alcuno scopo si autogenera, e la razionalità dell'io, non solo individuale ma anche collettivo, sociale, politico, che ragiona sulla sostenibilità di tutta questa vita su una terra dalle risorse limitate. E siccome la volontà di vita è irrazionale, e come tutto ciò che è irrazionale è percorso da forze decisamente più potenti delle pratiche razionali, non vedo come le ragioni dell'io (individuale e collettivo) possano avere la meglio sulle potenze irrazionali. Una strada, al momento percorribile, a mio parere c'è. Ed è quella di una vita più sobria e contenuta di noi occidentali. Perché se è vero, come certifica il PNUD (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) che noi occidentali siamo il 17% della popolazione mondiale e che per mantenere il nostro livello di benessere utilizziamo l'80% delle risorse della terra, è evidente che prima di limitare con decisioni politiche le nascite, dovremmo limitare le esigenze di noi occidentali e il profitto come regolatore di tutti i rapporti umani. Ma per questo occorre un'etica che si emancipi dal cristianesimo che prevede l'uomo al vertice del creato, e anche dal principio kantiano che prevede di trattare l'uomo sempre come un fine e mai come un mezzo: perché, per quanto appropriate fossero queste etiche quando gli uomini erano pochi e la terra era grande, oggi non funzionano più, perché non possiamo più considerare mezzi - ma fini da salvaguardare - l'acqua, l'aria, le foreste, la fauna, l'atmosfera, la biosfera. Purtroppo, però, non abbiamo ancora etiche che si siano fatte carico degli enti di natura, ma solo etiche che si sono limitate a regolare le azioni degli uomini. Qui la nostra razionalità, che non può molto rispetto alle pulsioni irrazionali dettate dalla specie, ha un ampio campo d'azione, per farci introiettare che gli enti di natura non sono solo mezzi (ormai scarsi) a nostra disposizione, ma fini da salvaguardare. (Tratto da “L'esplosione demografica e le risorse della Terra” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 3 di settembre dell’anno 2011).

Occidente&MadreTerra”. “La profezia di fratello Dodo”, testo di Renée Bergland - docente alla “Simmons University” di Boston – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 16 di marzo 2025: L’estinzione ci preoccupava molto prima che avessimo un nome per definirla. La mascotte originaria delle specie perdute, ancora prima che il concetto fosse compreso, era il dodo. L'uccello, grasso e incapace di volare, trovato dai marinai europei del Diciassettesimo secolo sull'isola di Mauritius, fu vittima di una delle prime estinzioni conosciute provocate dagli esseri umani occidentali. Per quattro secoli è stato un simbolo nella nostra arte e nei nostri dibattiti. Ciò che il dodo simboleggia è cambiato nel tempo. È stato, a seconda dei casi, una parabola, uno scherzo e un avvertimento. Quando lo vediamo come un emblema dell'avidità distruttiva della nostra stessa specie, non c'è modo di evitare rimpianti e dolore. Ma il messaggio mutevole del dodo potrebbe anche richiamarci alla speranza. Anche se non possiamo cancellare gli errori dei nostri antenati, possiamo uscire dal dolore ecologico con una nuova determinazione a proteggere e godere delle specie che ci sono rimaste. È possibile immaginare di costruire connessioni con il mondo naturale che portino alla crescita. All'inizio, i dodo erano emblemi di gola e stupidità. Senza molte prove, gli europei immaginavano che fossero avidi.  I pittori usavano i dodo per rappresentare il peccato, come in Dopo la caduta di Franz Rosel  von  Rosenhof,  in  cui  un  bue  pacifico  diventava  un  minaccioso ed esotico dodo in un altro dipinto. La circonferenza degli uccelli - un dodo poteva facilmente pesare 22 chili - contribuiva a promuovere quell'immagine. Un solo esemplare poteva sfamare 25 marinai, anche se la carne di dodo era grassa e poco appetitosa; in francese, il dodo era conosciuto come l'oiseau de nausée, ovvero "l'uccello della nausea". Tra la caccia dei marinai - un compito facile, poiché gli uccelli non avevano predatori naturali - e la distruzione delle uova e dell'habitat da parte di ratti e maiali portati dagli europei, i dodi non durarono a lungo. Gli ultimi furono uccisi prima del 1700. A quel tempo, l'umanità non poteva facilmente concepire l'estinzione di una specie, tanto meno un'estinzione causata dagli esseri umani. La maggior parte delle persone presumeva che Dio potesse creare gli animali a suo piacimento. Dopo la scomparsa dei dodi, molti pensarono che la loro sparizione fosse un messaggio divino rivolto agli esseri umani. Ci vollero più di cento anni perché Georges Cuvier, un paleontologo francese, convincesse la gente che le specie potevano essere definitivamente sradicate dal pianeta. Utilizzando i fossili, nel 1796 sostenne che molte specie si erano estinte in seguito a catastrofi naturali. Gli esseri umani avevano causato estinzioni almeno dall'era glaciale. L'espansione polinesiana, in particolare in Nuova Zelanda, fu responsabile della perdita di specie su larga scala. Ma l'idea era quasi del tutto nuova per gli europei. Poeti e romanzieri romantici, tra cui Mary Shelley e Lord Byron, iniziarono a immaginare l'estinzione umana come il punto finale naturale della geologia e scrissero opere distopiche in cui la terra alla fine si riduceva a nient'altro che «un grumo di morte». Cinquanta anni dopo Cuvier, quando i cacciatori uccisero l'ultimo dei grandi alci nel 1844, la consapevolezza che gli esseri possono causare direttamente I'estinzione fu un altro shock. Sorse una nuova comprensione della scomparsa del dodo, anche se non sempre comportò lutto. Alcuni pensatori del XIX secolo lodarono il potere umano, così grande da poter spazzare via intere specie. Altri, come Lewis Carroll, rappresentarono il dodo come simbolo di futile stupidità. Ma, in quello stesso periodo, si diffuse l'idea del dodo come monito. Nel 1874, Charles Darwin e i suoi colleghi scienziati citarono il dodo in un appello al governatore coloniale delle Mauritius per salvare le tartarughe locali. «È un rimpianto duraturo», scrissero, «che nemmeno pochi esemplari di questi curiosi uccelli abbiano avuto la possibilità di sopravvivere alla condizione di illegalità e di disordine dei secoli passati». Darwin non riuscì a salvare quelle tartarughe, che presto seguirono la sorte del dodo. Lui intanto cercò anche di immaginare l'estinzione in altri modi, come forza creativa, essenziale per l'evoluzione. «L'estinzione di vecchie forme e la produzione di forme nuove e migliorate sono intimamente connesse», scrisse. Per lui, la scomparsa di una specie poteva portare a qualcosa di completamente nuovo. Non si poteva, secondo logica, avere l'ascesa dei mammiferi senza la fine dei dinosauri. Gli scrittori successivi furono influenzati dalle tesi generative di Darwin. La disperazione romantica non era l'unico modo di affrontare il cambiamento ecologico. Per Emily Dickinson, «un singolo osso» poteva svelare segreti. La scienza e l'immaginazione, scrisse, potevano usare il «più mite fiore dell'idromele» per ricostruire un ricco habitat di «Rose e gigli, molteplici, / e innumerevoli farfalle!». Questa linea di pensiero ci invita ad accogliere il nostro futuro incerto. Non possiamo sapere cosa emergerà sulla scia dell'estinzione. Una tale infinita possibilità è spaventosa ma anche eccitante. La biosfera cambia in modi che non possiamo immaginare. Oggi, l'estinzione causata dall'uomo sta accelerando. Il dodo è uno dei primi elementi di una lista già lunga. Un altro milione è sull'orlo dell'estinzione. Nel nostro attuale stato d'ansia ecologica, immaginare un futuro con un trionfo di piante e animali interconnessi, come volevano Dickinson e Darwin, è difficile. Meglio riconoscere che la rete di relazioni tra le specie è indicibilmente complessa e in continua evoluzione. Questo riconoscimento potrebbe aiutarci a prevenire l'estinzione di altre specie, anche se non possiamo riportare in vita quelle che abbiamo già condannato. Quando insegno materie umanistiche ambientali al college, noto che molti dei miei studenti arrivano in classe già preparati a vedere la perdita e la desolazione nel mondo naturale. Li incoraggio a trascorrere del tempo all'aperto e a interagire con piante e animali, e spesso vedo migliorare il loro umore. La maggior parte sta imparando a riconoscere le specie per la prima volta. Chiunque può trovare conforto e ispirazione nel costruire legami con il mondo non umano. Nessuno di noi vedrà mai un dodo, ma possiamo conoscere gli uccelli che vivono ancora tra noi. Come ha detto Dickinson, «la speranza è l'ultima a morire».

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