A lato. Jean Jacques Rousseau.
Tratto da “Noi, così individualisti. Ma come lo siamo diventati?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” di sabato 7 di ottobre dell’anno 2017:
Si deve al Cristianesimo la scissione tra
cittadino e società. Che in occidente raggiunge forme esasperate. La denuncia (…)
della nostra cultura individualistica è corretta, così come corretta è la
segnalazione delle sue conseguenze disastrose per il nostro Paese. Le radici
affondano nella tradizione cristiana, che ha anteposto la sorte dell'individuo
a a quella della comunità. Nel mondo greco, il primato spettava alla comunità
(polis), a proposito della quale Aristotele, nella Politica (Libro I, 1253a),
afferma: «La polis esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo, per la
semplice ragione che nessun individuo è autosufficiente, per cui chi non è in
grado di entrare in una comunità, o per la sua autosufficienza non ne sente il
bisogno, non è parte della polis e di conseguenza o è bestia o è dio». Dello
stesso avviso è Platone che nelle Leggi (Libro X, 903c) scrive: «Anche quel
piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha un intimo rapporto
con il Tutto e un orientamento a esso, per cui tu sei giusto se ti aggiusti
all'universa armonia».Il cristianesimo, a partire da
Sant'Agostino, fissa nell'anima il principio dell'individualità personale e
colloca nella sua interiorità la rivelazione della parola di Dio, quindi la
verità. Leggiamo, infatti, nel Commento agostiniano al Vangelo di S. Giovanni:
«Nell'uomo interiore abita Cristo»; in un altro passo: «Nell'uomo interiore
abita la verità»; infine: «Chi ama il mondo non conosce Dio». Qui prende avvio
quella scissione tra individuo e società che sarà il tratto caratteristico
della cultura cristiana perché, se la destinazione dell'individuo è
ultraterrena, la sua esistenza, pur svolgendosi nel mondo, dovrà essere
separata dal mondo stesso, e il senso della sua vita privatizzato o
spiritualizzato. All'individuo il compito di conseguire la propria salvezza;
alla società e a chi la governa quello di ridurre gli ostacoli che si
frappongono a questa realizzazione. Dal momento che la destinazione
dell'individuo non ha più parentela con la destinazione della società, si
consuma definitivamente la separazione tra individuo e comunità. Perciò
Rousseau può scrivere nel Contratto sociale (Libro IV, capitolo VIII): «Lungi
dall'affezionare il cuore dei cittadini allo Stato, il cristianesimo li
distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più
contrario allo spirito sociale. Siccome la patria del cristianesimo non è di
questo mondo, il cristiano fa il suo dovere, è vero, ma lo fa con una profonda
indifferenza, riguardo al buono o cattivo esito dei suoi sforzi. Purché non
abbia nulla da rimproverarsi, poco gli importa che tutta vada bene o male
quaggiù». Nella nostra epoca, caratterizzata dall'egemonia della tecnica,
l'individuo è in crisi non perché «si è affezionato allo Stato», ma perché, (…),
si sente sempre più funzionario di apparati, in cui la sua individualità
dipende dal ruolo che occupa nell'organizzazione. E la sua identità dai riconoscimenti
o misconoscimenti all'interno dell'apparato di appartenenza, che richiede
un'uniformità di pensiero e di comportamento. Ne consegue, come scrive Max
Horkheimer, che: «Riecheggiando, imitando, copiando coloro che lo circondano,
adattandosi a tutti i potenti gruppi di cui entra a far parte, trasformandosi
da essere umano in membro di un'organizzazione, sacrificando le proprie
potenzialità alla buona volontà e alla capacità di adattarsi a quelle
organizzazioni e di ottenere una certa influenza nell'ambito di esse,
l'individuo riesce a sopravvivere. Deve dunque la salvezza al più antico
espediente biologico di sopravvivenza, il mimetismo». L'individualismo, vale a
dire la perversione derivante dalla cultura che ha affermato il primato
dell'individuo, quando è contenuto e represso nel mondo del lavoro, e più in
generale nel pubblico, si potenzia nel privato. Che diventa quel recinto
inviolabile dove nessuno può entrare (non solo i ladri, ma neanche i vicini di
casa di cui neppure si conosce il nome), in quella difesa strenua delle cose
che si possiedono, a loro volta incaricate di rappresentare chi siamo. Nella
più totale indifferenza nei confronti di quanti, più disagiati di noi, chiedono
almeno uno sguardo.
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