Ha scritto Michele Serra in “La scemenza danzerina” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 10 di novembre dell'anno 2020, quando si era ancora in attesa tutti della puntualissima
seconda ondata della “pandemia”: (…). …la Procura di Cagliari (...) deve
cercare di leggere in chiave legale la scemenza danzerina che ha animato
l'estate nei localini più o meno alla moda, spargendo il contagio con il gesto
ampio e ritmato del seminatore. Certo, parecchi degli scemi in questione sono
anche gli stessi che, a frittata fatta, domandano astiosi e puntuti "che
cosa ha fatto il governo in questi mesi", avendo loro fatto quasi tutto il
peggio possibile per riempire gli ospedali. Ma esiste davvero un vaglio
giuridico, per misurare l'irresistibile imprevidenza degli esseri umani? Un
minuto dopo che le terapie intensive erano quasi svuotate è suonata la sirena
del bagordo, e la melodia del registratore di cassa ha riempito i lungomare. Più
ancora del bisogno del profitto, è verosimile che abbia pesato il bisogno di
impunità e di superficialità che è il motore di molte delle azioni umane,
spensierate ben prima che criminali, futili ben prima che ostili. Scemi,
appunto, scemi da discoteca e da drink che postavano sui social la loro
scemenza come prova provata che la vita continua. Antesignani della derelitta
animatrice di "non c'è coviddi", che povera crista è palesemente al
di sotto di ogni possibile giudizio, mentre tra gli animatori dell'estate
sarda, e versiliana, e di ovunque, c'erano fior di personaggi pubblici, gente
da televisione e da rivista glamour, perfino rappresentanti del popolo,
sculettanti di felicità. Un avviso di garanzia può servire, al massimo, a dare
lavoro ai loro avvocati. Quanto alla loro intelligenza, dev'essere caduta per
terra a passo di salsa, o di techno, e qualche inserviente, all'alba, l'avrà riposta
in un sacchetto, in attesa di capire come smaltirla. Tratto da “La nuova materia è la riscoperta
dell’altro” di Massimo Recalcati, pubblicato sul settimanale “Robinson” del
quotidiano “la Repubblica” del 20 di febbraio 2021: (…). Nella nostra ultima estate
le catene del distanziamento sociale si sono rotte e la vita è tornata ad
affermarsi nella sua irresistibile ottusità. Nella giovinezza, infatti, la vita
è vissuta come qualcosa che appartiene solo alla vita. Non c'è pensiero della
morte, della fine, della malattia. Tutto della vita appartiene alla vita: le
strade, il mare, le montagne, le città, il cielo. Ed è proprio questa
appartenenza che ha spinto nella nostra ultima estate, soprattutto le nuove
generazioni, a lasciare cadere le misure di precauzione sanitaria e a gettarsi
di nuovo a corpo perduto nel gorgo della vita. Abbiamo però poi dovuto
sperimentare nella seconda ondata il ritorno del male, l'angoscia della
recidiva, la persistenza del buio che non si è ancora dissolto. Retromarcia,
nuove chiusure, arretramenti, distanziamenti. Presenza tra i giovani di sintomi
inquietanti: depressione, agiti autolesivi, autoreclusione, aggressività,
somatizzazioni, sviluppo di dipendenze. Il disagio giovanile è inevitabile
proprio perché la giovinezza esige l'aperto e non il chiuso. Con l'aggravante
che la presenza delle varianti insinua nuovi dubbi su quando la vita potrà
ritrovare il suo corso normale. Da una parte, dunque, c'è la spinta della vita
a volersi affermare senza riconoscere i limiti, a voler appartenere alla vita e
dall'altra c'è la necessità di preservare i limiti di fronte al ritorno
insistente della malattia. È in questa stretta oscillazione che la vita dei
nostri figli, come la nostra del resto, è costretta a vivere. Ma questa
oscillazione che la pandemia esaspera non è forse una costante della vita
umana? Non ci può essere vita che rifiuti i limiti o limiti che rifiutino la
vita. Quando parlo di oscillazione significa che entrambi i poli - affermazione
della vita e presenza dei limiti che vincolano la vita - sono irriducibili. Proviamo
a guardare più da vicino questa oscillazione. C'è stata esperienza della
distanza che ha accentuato quella della prossimità. Molti giovani attraverso la
tecnologia hanno praticato una specie di forma ipermoderna di stilnovismo: la
distanza ha tenuto per molti acceso il desiderio anziché spegnerlo. È un
insegnamento prezioso da tenere presente: la caduta del desiderio non sorge
tanto dal distanziamento ma da una eccessiva prossimità. Esistono relazioni familiari
cimiteriali che hanno messo a morte il desiderio per eccesso di prossimità. Non
sempre la vicinanza è, dunque, sinonimo di autentica prossimità e non sempre la
distanza esclude la vicinanza. Nondimeno, nella giovinezza il corpo avanza il
suo legittimo diritto a godere. È questa una definizione non inappropriata
della giovinezza in quanto tale: il corpo avanza il suo diritto al godimento
oltrepassando il recinto della famiglia, spingendosi nel mondo, esigendo
l'incontro con altri corpi. Non c'è nessuna età della vita che come quella
della giovinezza esige con così forza l'esperienza dell'aperto. Lo stilnovismo
che canta l'inaccessibilità della Dama e la sua eterea venerazione a distanza
non può ovviamente accontentare in toto il corpo erotico dell'adolescente. Ecco
allora l'assalto alle discoteche, l'assembramento, le risse, la calca nelle
spiagge e nei luoghi di vacanza della scorsa estate e i comportamenti non
sempre accorti che essi tendono ad assumere. La vita del corpo pulsionale non
riconosce il limite ma prova ad aggirarlo costantemente. Cicala contro formica;
l'energia vitale dei corpi esige la dilatazione degli spazi, l'orizzonte, il
mare. Non sopporta la contrazione, la ristrettezza, l'amministrazione grigia,
l'accumulo del risparmio. Essa impone un'economia del dispendio, come direbbe
Bataille, che contesta ogni equilibrata economia dell'utile. In questo, se si
vuole, consiste la coincidenza della giovinezza con la forza. Nell'ultimo
romanzo di Paolo Giordano titolato Divorare il cielo essa è tradotta con
efficacia nell'immagine della fuga in piena notte di una moltitudine di cavalli
destinati al macello. È questo il carattere pulsionalmente eretico ed erotico
della giovinezza: fuggire dalla morte per andare verso la vita. Ma in questo
tempo di pandemia la forza dei cavalli appare necessariamente imbrigliata nella
segmentazione sanitaria degli spazi privati e pubblici. Alcuni hanno evocato
addirittura un nuovo regime di controllo, una forma di totalitarismo sanitario.
Diversamente quello che accade è per i nostri figli una grande prova. La
formazione non è una scala che si tratta di salire dal gradino più basso a
quello più alto. Essa assomiglia piuttosto ad un percorso ad ostacoli, di
natura labirintica, non rettilineo, sfasato, accidentato, spiraliforme. In
questo processo ogni superamento di una soglia implica una prova simbolica. La
prova è quella esperienza che confronta il soggetto non con un limite esterno,
ma con il proprio limite interno. La prova è tale se l'agonismo non è rivolto
verso il simile, ma innanzitutto verso le proprie paure, verso le nostre parti
più buie. In questo senso essa è un tempo essenziale in ogni formazione. La
caratteristica prima della prova individuale e collettiva imposta dal Covid
consiste in un nuovo modo di guardare il mondo. Non solo dal lato dell'Ego ma
anche da quello dell'Altro. Sembra una formula retorica ma non lo è: il
magistero del Covid esige uno sguardo binoculare, come direbbe Bion. Non
possiamo guardare al nostro Ego senza guardare simultaneamente all'Altro. La
forza piena di vita dei cavalli che galoppano nella notte lasciando alle spalle
l'orrore del macello, deve accordarsi necessariamente ad una forma. È questa la
prova più alta che attende i nostri figli: formazione significa dare una forma
alla forza della vita. Questa forma però non è solo singolare ma anche plurale.
È una lezione difficile da cogliere per figli che sono cresciuti dentro un
mondo che ha escluso l'Altro e ha fatto esistere in modo idolatrico solo il
nostro Ego. Il magistero del Covid ha mostrato invece che l'Altro non è solo il
mio limite ma anche la mia possibilità di salvezza. Spieghiamo questo ai nostri
figli. Spieghiamo che a volte l'esperienza del limite imposto non è solo una
esperienza di repressione della libertà ma la sua massima espressione. Portare
la mascherina, rispettare il distanziamento, vaccinarsi non sono solo gesti
dell'Ego per difendere se stesso ma acquistano anche il valore di una
solidarietà nuova alla quale non eravamo più abituati. Posso portare qualcosa
come la mascherina che limita il mio corpo come se fosse un dono e non solo un
fastidio. Posso vaccinarmi non solo perché voglio mettere in sicurezza la mia
vita ma anche perché in questo modo metto in sicurezza la vita degli altri. In
gioco è un grande cambio di sguardo: la moltitudine dei cavalli nella loro
forza selvaggia non istituisce una comunità, la moltitudine che noi siamo ha
invece il compito di fare della comunità la sua meta fondamentale.
"La vita di un uomo puro e generoso è sempre una cosa sacra e miracolosa, da cui si sprigionano forze inaudite che operano anche in lontananza".(Hermann Hesse).
RispondiElimina"Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi".(Alessandro Baricco). "Un amico lontano è a volte più vicino di qualcuno a portata di mano. È vero o no che la montagna ispira più riverenza e appare più chiara al viandante della valle che non all'abitante delle pendici?" (Khalil Gibran). Carissimo Aldo, grazie per questo post che è un vero gioiello prezioso! Lo paragonerei ad un farò, visto come il simbolo della forza spirituale che giunge in nostro soccorso quando siamo in preda al delirio degli abissi... Buona giornata e buona continuazione.