Ha scritto Marco Damilano in “Paure americane”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’8 di novembre dell’anno 2020: (…). La pandemia strema la salute non soltanto degli individui, ma anche dei corpi sociali. E le situazioni estreme come quella che stiamo vivendo dall’inizio del 2020 dividono, lacerano, trascinano il corpo sociale in direzioni opposte. È lo scenario privilegiato per le soluzioni semplificate, la caccia al nemico, l’odio per chi ti sta vicino che può trasformarsi in un pericolo. In una parola, il terreno preferito dalla destra mondiale, se per destra intendiamo anche rifiuto delle mediazioni e delle complessità, eclisse della responsabilità collettiva che va respinta per lasciare il posto agli istinti individuali. Ma anche a sinistra, anche in Italia, per molti anni si è fatta largo la scorciatoia antipolitica, come se l’unica identità possibile per un leader - che si tratti di un premier, di un segretario di partito o di un presidente di regione o di un sindaco - fosse quella di rivolgersi direttamente agli elettori, scambiati a loro volta per un popolo indistinto. Lo dimostrano i rappresentanti delle regioni (…), impegnati a difendere i loro territori come capi ultras, impossibile distinguere tra di loro la destra e la sinistra. Dimenticando però che quando cade questa distinzione è la destra radicale che vince. A dire che cosa sia il popolo è stato un leader della sinistra, Walter Veltroni, in una sede non politica, i funerali di Gigi Proietti. «Voleva che ciò che è bello non fosse visto solo da un’élite. Era un intellettuale popolare», ha detto Veltroni. (…). Purtroppo intellettuale popolare suona come un ossimoro, due parole che insieme non possono stare. Così come politico popolare, una volta che si sono scissi i termini: il politico è semmai diventato populista, che di popolare è l’opposto. Il politico populista è il truffatore del nostro tempo, vive di rotture. Il politico popolare si propone di ricucire: nel Novecento le tradizionali fratture, i cleavages individuati dai politologi Stein Rokkan e Seymour Lipset tra città e campagne, religiosi e laici, operai e borghesi. Oggi è molto più complicato perché le fratture sono atomizzate, coincidono quasi con le singole identità individuali: sono di genere, di generazione, di orientamento sessuale, sono il risultato di discriminazioni e disuguaglianze, sono il filo che ciascun governante è costretto a interpretare. Ma sono anche il culto del particolare che ogni lobby o categoria o gruppo di pressione esercita sulla politica, incurante dell’interesse generale o del bene comune. Tutto questo non è teoria, è la pratica politica del nostro tempo e della nostra Italia. (…). Prosa profetica. Tratto da “In lockdown senza passare dal via. Il Monopoli del virus un anno dopo” di Giacomo Papi, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi 10 di marzo 2021: Un anno dopo l'impressione è ricominciare da capo, come quando a Monopoli si ritorna in prigione senza passare dal via. La paura si è trasformata in rabbia e stanchezza, e le dimensioni del disastro sono più chiare. (…). L'epidemia è stata una lente che ha mostrato quello che stavamo già diventando. Processi in corso da decenni, ma che consideravamo futuro, si sono all'improvviso mostrati come parte del presente. Sono apparse nuove divisioni sociali, a integrare o sostituire le vecchie. La prima è quella tra giovani e anziani, tra quelli che si sentono vivi se possono uscire e quelli che restano vivi solo se rimangono in casa. È un conflitto oggettivo, che ha rivelato i veri valori della società (come ha candidamente ammesso il governatore della Lombardia Attilio Fontana: "O riduciamo la gente che va al lavoro o riduciamo la gente che va a scuola"). Era dai tempi della Prima guerra mondiale che non si metteva sulla pelle dei giovani la responsabilità di salvare quella dei vecchi. "Se non fate i bravi, ucciderete i vostri nonni" è un messaggio violentissimo, soprattutto perché è associato a comportamenti che, fino a ieri, erano associati alla gioia, all'amore e alla crescita: baciarsi, toccarsi, stare insieme, andare a scuola. L'altra divisione, quasi di classe, è tra chi può lavorare da casa e chi per sopravvivere è costretto a muovere il corpo. Le strade sono state invase dai rider, dai trasportatori (…) e all'improvviso uscire dalla tana per procurarsi qualcosa, come l'uomo ha fatto dalla preistoria cacciando e raccogliendo, non è più stato indispensabile. Per la prima volta le mani con cui afferriamo le cose sono telefonini e computer. Altre rivelazioni ci hanno cambiato a un livello più intimo, invadendo zone prima inviolabili. L'amore, prima di tutto, nonostante il "knuffelcontact", il "contatto di coccole" concesso per legge dal Belgio agli amanti occasionali. Ma è cambiata anche la percezione del corpo che si è trasformato in un alleato da proteggere e in un'arma potenziale, ma soprattutto nel confine dietro cui rintanarsi per trovare un po' di privacy nelle case affollate. Sono cambiati i sogni ed è cambiato il sonno. Chi lavora da casa ha sperimentato il letargo, la strategia con cui per millenni ci si rintanava in attesa del sole, un letargo che si protrae anche oggi, nonostante la primavera in arrivo. L'interruzione dei ritmi di vita ha sconquassato il nostro modo di dormire, travolgendo gli argini che separavano la notte dal giorno, il riposo dal lavoro. Eravamo così abituati al ritmo del Novecento - otto ore di lavoro, otto di consumo e otto di sonno - da considerarlo naturale, anche quando lo schema era già saltato.
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