Ha scritto Umberto Galimberti in “A ognuno il suo Dio? Così si fa solo
confusione” pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica”
del 9 di maggio dell’anno 2015: Un oggetto di fede costruito sulla base
delle proprie necessità e angosce somiglia a un idolo. Ideale per consolare e
rassicurare, ma non per discutere davvero. Ma come si fa a discutere di Dio con
coloro che credono in Dio, se ciascuno di loro, con la parola "Dio",
pensa una cosa diversa? Qui non mi riferisco al fatto che il Dio dei cristiani
non è il Dio degli ebrei o dei musulmani o degli induisti o dei taoisti - e
l'elenco potrebbe proseguire per quante sono le religioni nel mondo - ma al
fatto che all'interno del cristianesimo stesso ciascuno si è costruito un Dio
personale che risponde alle sue esigenze psicologiche, le quali, essendo
diverse da individuo a individuo, creano tanti volti di Dio quanti sono i
sentimenti e i pensieri che lo riguardano. Ma quando Dio diventa una risposta
alle istanze psicologiche di ciascuno di noi, non è più il Dio trascendente che
ha creato il mondo, che guarda e provvede alle vicende umane, che promette la
salvezza in una vita ultraterrena, ma un Dio degradato a consolazione delle
nostre ansie, a rassicurazione delle nostre incertezze, a
deresponsabilizzazione delle nostre scelte perché la via è già tracciata, a
lenimento della nostra angoscia di morte. Costruire un Dio che risponde ai
nostri bisogni psicologici, non è il modo migliore per negare Dio proprio
mentre si testimonia la propria incrollabile fede in Lui? Non è, questo Dio, un
idolo che ci siamo costruiti? (…). Allora di chi parliamo, quando parliamo di
Dio? Aristotele ci ha insegnato che è possibile discutere solo quando le parole
hanno un significato univoco, ma se ciascuno con la parola "Dio"
pensa quel che gli pare, su Dio non si può discutere, né vale la propria
testimonianza, perché questa non testimonia nulla di Dio, ma unicamente
dell'idea che ci siamo fatti di Lui o del nostro sentimento che ha bisogno di
Lui. E allora al silenzio di Dio non c'è altra risposta che il nostro silenzio,
che forse è l'atto più rispettoso che si può avere nei confronti di questo
Nome, in cui probabilmente si riflette l'essenza dell'uomo, che non si
accontenta mai dell'esistente, ma è incessantemente sospinto verso una
trascendenza, un superamento continuo di sé. Letto – per cortese
segnalazione dell’amica carissima Agnese A. - sul sito www.perlestrade.org il post “Il Dio in cui non credo” del teologo Carlo
Molari del 18 di aprile dell’anno 2017: Non credo nel Dio della “pura ragione”: non
merita fiducia e non è sufficiente. Si può credere in Dio attraverso la
riflessione filosofica, ma non giungere alla FEDE in Dio, cioè a considerare
Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad
amare in un modo nuovo. Se non scopri che c’è un Dio che ti ama e che ti
consente di giungere a una forma nuova di vita a che ti serve? Non credo nel
Dio che opera nella creazione e nella storia intervenendo, modificando le
situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della
creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione
creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si
sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le
creature. […] Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma
nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può
condurlo al suo compimento. Dio non può risolvere alcun problema storico se non
ci sono creature che, aprendosi alla sua azione, indicano e realizzano la
soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio
della fede. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le
pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato
così. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini.
Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa
insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché
mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica
l’atteggiamento di Dio […] ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto
più profondo e ricco. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette
dall’inizio perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a
frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione
compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in
un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella
prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo
continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo
del cammino, la perfezione piena è solo alla fine. Non credo nel Dio che vuole
la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che
si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore,
e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino,
perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno
attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono
pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo
è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma
perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme
sublimi. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio
perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua
Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui
ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non
diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Quando
diciamo che la Scrittura è “parola di Dio” dobbiamo intendere la formula in
senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha
suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con
cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali
del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è
rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne
la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design) come lo
presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole
l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Il Dio della fede
non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza.
Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo
sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti
eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della
storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la
casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della
storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti,
vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino
evolutivo.
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