"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 22 marzo 2021

Virusememorie. 64 «La pandemia ha reso epica la nostra vita di prima. Ci siamo dimenticati della fatica e della pochezza della felicità».

A lato. "Barche in porto", acquerello (2019) di Anna Fiore.

Ha scritto il filosofo Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19” (Nottetempo editrice - 2020): (…). …l’unico punto certo è quello dell’eliminazione dell’idea che “tutto andava bene”. Dovremmo contare anche chi nasce, non solo chi muore. È la vita che sboccia, ostinatamente, in barba alle avversità. I bambini che verranno non sanno nulla del mondo in cui sono stati concepiti: abbiamo la possibilità di farli vivere in una brutta copia di ciò che c’era prima, oppure costruire un nuovo modello dove non saremo costretti a raccontargli quanto era bello vivere e correre nella natura, ma farglielo fare davvero. (…). Si comincia ora, con timidezza, ad ammettere che c’è un legame profondo tra distruzione dell’ecosistema e diffusione delle epidemie.

Già in casa, qui e ora, ci rendiamo conto che molte delle cose che ritenevamo indispensabili non lo erano per nulla. “L’entusiasmo per il progresso”, come lo definiva Theodore Kaczynski (il matematico e terrorista americano noto come Unabomber), “è un fenomeno tipico della forma moderna della società e sembra non essere esistito prima”. Possiamo farne a meno: possiamo provare a essere entusiasti anche per la vita in quanto vita; ma non c’entra la “nuda vita” nel senso in cui viene discussa in filosofia da decenni: forse il coronavirus ci mostra che esiste altro oltre questa dicotomia, e che non abbiamo neanche la semantica adatta a parlarne. A quale punto siamo della nostra traversata “pandemica”. Dove sono finiti i propositi buoni di non “essere più come prima”? È bastata l’estate 2020 per farci capire che si era ancora fermi ai paletti dei nostri convincimenti pre-pandemia. È bastato poi il Natale a fugare ogni dubbio che quell’essere “diversi nei proponimenti e negli stili di vita” non si sarebbero giammai realizzati. Tratto da “Che cosa dobbiamo imparare davvero” di Francesco Piccolo, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 20 di marzo 2021: Il fatto è che la pandemia ha reso epica la nostra vita di prima. Questo tempo claustrofobico ha cambiato i connotati della nostra memoria. E adesso siamo convinti che "prima", fino a un anno fa, quando appariva un film italiano nelle sale la gente si picchiava per riuscire a entrare prima che chiudesse il botteghino per sold out; che i lettori sfondavano le vetrine pur di accaparrarsi il romanzo più importante dell'anno, che i teatri fossero strapieni di spettatori svegli e innervositi solo dal fatto che dopo cinque ore la performance fosse già finita. È come dire che nel nostro ricordo prima della pandemia, per esempio, il Partito democratico sceglieva subito, senza esitazioni né dubbi, i candidati sindaco delle grandi città; e quindi ci aspettiamo che succederà anche dopo. Ci siamo dimenticati della fatica e della pochezza della felicità. Ce ne siamo dimenticati a ragione, ma ce ne siamo dimenticati. Siamo sicurissimi che saremo entusiasti di andare a cena da amici e tornare alle due di notte, e non come ora che chiunque è a casa per le dieci e c'è ancora tutto il tempo di continuare a vedere la serie imperdibile su Netflix. Siamo sicuri che saremo tutti più felici quando non potremo più rispondere: ma c'è la pandemia. Non dovevamo passare una notte insieme? Non dovevamo andare nel ristorante più buono del mondo? Non dovevamo fare lo scambio di coppia con quei nostri amici? Non dovevamo andare al mare? Prendiamo i biglietti per quel concerto? Ma quell'aperitivo? Mi ami? - eh, ma c'è la pandemia. Non avremo più questa risposta salvifica per la Pasqua e soprattutto per Pasquetta, per quella riunione di ex compagni di classe, per quel chiarimento per un malinteso. E "dopo" dovremo ricominciare a uscire, e dovremo ricominciare a fare tardi. Sarà faticoso essere allegri, ci saranno di nuovo le feste, saremo di nuovo indecisi se andarci o no, alla fine ci andremo, alle feste diremo, sorseggiando qualcosa, che non ci piacciono le feste, qualcuno ci abbraccerà sudato dopo aver ballato, qualcun altro ci parlerà vicinissimo con l'alito pesante. E torneremo ubriachi e sfatti alle quattro di mattina. Ci siamo dimenticati che a una certa ora dei pomeriggi che ci aspettano, ai quali aneliamo, cominceremo a chiederci e a chiedere: che facciamo stasera?, dove andiamo?, cosa vediamo? Qualcuno ricomincerà a tormentarci con il bel tempo, con i fine settimana di sole, facciamo qualcosa - tutti vorranno fare qualcosa, e si farà qualcosa, e poiché lo decideranno tutti di fare qualcosa le strade saranno un ingorgo unico qualcuno dirà: vabbe', ma che importa, tanto è sabato. Non ci ricordiamo che a chi scrive sui giornali e a chi li legge ripetevano che i giornali sono morti, a chi scrive i libri e a chi li legge ripetevano che la letteratura è morta, a chi fa il cinema e a chi ci va ripetevano che il cinema era morto. E a chi voleva interessarsi di politica, ripetevano che la politica non ha più senso. Nel nostro ricordo, ci divertivamo quando uscivamo. Ci siamo dimenticati che non eravamo euforici ma piuttosto immalinconiti, affaticati. E che tutto quello che ci appassionava ci avvertivano che di lì a poco non sarebbe più esistito. E anche noi, o al massimo i nostri figli, saremmo spariti dal mondo nel giro di pochi decenni a causa del disastro ecologico che avevamo causato noi stessi. Ed era per questo che gli appelli che ci piaceva firmare di più erano per la salvezza del mondo. Perché ora quello che ci manca di più è andarcene in giro a esprimere la nostra indignazione per tutto, a manifestare in difesa dei giusti e contro le ingiustizie del mondo. Adesso possiamo, tuttalpiù, chiusi nelle nostre case, firmare tantissimi appelli, che è un po' un secondo lavoro oltretutto gratuito, quindi ancora più nobile. Durante la pandemia la cosa più accorta che abbiamo fatto, è stato restarcene a casa e firmare a favore o contro tutto. Come sintetizzava Arbasino in Paesaggio italiano con zombie: "Bisogna dar lavoro a tutti i disoccupati, ospitare in Italia tutti gli immigrati, fare entrare nella Comunità Europea e nella Nato tutti gli Stati dell'Europa e del mondo. E inoltre costruire tante case, tante chiese, tanti treni, tante librerie, tanti ospedali, tanti teatri. A quantificare le spese, ci pensino gli economisti e i politici, non è affar mio. Io sono un sant'uomo che fa bellissime figure parlandovi solo col cuore...". Noi siamo convinti, con la ripulitura della memoria che la pandemia ha operato, che eravamo sempre molto felici, euforici, entusiasti. Non abbiamo più il ricordo di come eravamo: delle persone che si aggiravano per il Paese visitandolo, o per lavoro, andando nei festival, ai musei, alle presentazioni, ai reading - e ci aggiravamo confuse, non ricordando più il titolo di quel film, avendo sulla punta della lingua quello scrittore o quel romanzo decisivo nella nostra vita, dicendo di continuo: "coso, come si chiama?"; eravamo delle persone con il cervello acceso, combattivo, ma ottenebrato e mescolato. Delle persone affaticate e balbettanti, impegnate nello sforzo di riuscire a recuperare la concentrazione e la lucidità. Qui, adesso, protetto dal coprifuoco, io cerco di dimenticare che andavo in giro e incontravo persone, e perdevo progressivamente e con costanza la capacità di ricordarmi chi fossero, dove le avevo viste; e forse perché me ne sono andato troppo tardi dalla mia città, continuavo a pensare di chiunque mi sembrava di conoscere: ma forse è di Caserta. Anche se vedevo per strada Giorgino il conduttore del tg1 pensavo ma io quello lo conosco, è di Caserta. E se dovessi incontrare, che so, Lady Gaga, mi chiederei ma dove l'ho vista? E mi avvicinerei per domandarle: ma tu sei di Caserta?, e non saprò mai cosa mi risponderebbe perché tre guardie del corpo mi salterebbero addosso e sarei già faccia a terra con ginocchia piantate nella schiena. E semplicemente penserei: è la malavita casertana. Torneremo al cinema, a teatro, alle mostre, e una parte delle opere ci sembreranno bellissime, ma altre torneranno a sembrarci brutte come ci sembravano prima, e non come ora che tutto ci sembra accettabile perché ci fa compagnia. Eppure è quello che desideriamo: ennesime riletture di Shakespeare e Pirandello che durano molte ore, festival letterari in cui correre da un incontro all'altro, retrospettive di registi fino all'alba. Ritroveremo questo, anche. Anche la noia, la voglia di scappare - ma è brutto alzarsi e poi tutti ti vedono. Ci siamo dimenticati, durante la pandemia, che alle volte ci siamo commossi davanti a un'opera straziante, ma altre volte avremmo voluto smontare la nostra poltroncina e scagliarla contro il palco; e che alle anteprime molte volte ce ne saremmo scappati volentieri, casomai avendo il coraggio che ebbe Poulenc alla fine del primo atto della prima del David di Milhaud, quando non contento di essersi infilato il cappotto, essendo amico dell'autore gli si avvicinò e disse: io vado, tu che fai, resti? Dobbiamo, dopo, quando finirà tutto, ricordarci come eravamo, e riprenderci tutto, quello che ci piaceva ma anche quello che non ci piaceva. Quindi saremo sinceramente euforici per la vita nuova, ma coscienti che dopo un po' diremo o sentiremo di nuovo: il neorealismo sì, Strehler e Ronconi sì, Gadda e Morante sì, ma ora... Ecco, questa immagine di uno con la faccia a terra e un ginocchio piantato nella schiena era più o meno chi eravamo noi - non tutti, per carità, ma alcuni, o molti - prima che cominciasse la pandemia. E quando tutto finirà, è da lì che dobbiamo ripartire, da quella posizione, con il pensiero confuso che Lady Gaga sia una che abitava nella nostra città. Da lì dovremo ricominciare a costruire. E la verità è che sia prima della pandemia; sia durante questi mesi mentre stiamo cercando di capire chi eravamo e chi saremo, e anche mentre cerchiamo di dimenticare la confusione delle nostre vite; sia dopo, quando ritorneremo a quel punto di partenza, a quell'immagine così sfavorevole, così confusa - faccia a terra e il ginocchio piantato nella schiena - la verità è che sarà comunque un bel modo di ripartire, e cercare di organizzare il pensiero in modo che diventi più efficace e più ordinato. E chissà che tutto questo tempo non ci abbia fatto ricordare qual era quel film, quello scrittore, quel romanzo, e chi è Lady Gaga. Chissà che tutto questo tempo, dopo, non ci farà almeno perdere per strada un po' di quella confusione. Non foss'altro perché non ce ne ricorderemo più. 

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