Ha scritto oggi – martedì 23 di marzo 2021 -
Michele Serra in “L’eccellenza e la
siringa”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). E allora, come si fa a non
buttarla in politica? Che frutti ha dato, alla prova dei fatti, il forsennato
aziendalismo che è stato il faro del centrodestra per decenni, del quale
l'opera formigoniana prima, quella leghista dopo, sono stati esecutori zelanti,
e la signora Moratti è oggi la molto tardiva testimone? (Moratti sta
all'aziendalismo come Cossutta stava all'Unione Sovietica: tetragoni al tempo
che cambia il mondo). Se ciò che non è "eccellenza" diventa solo un
costo, una zavorra imputabile di nuocere ai bilanci, come stupirsi se i medici
di base si ritrovano soli e male attrezzati per l'emergenza? C'è un'umiltà
bestemmiata, nello sviluppo in auge, una tragica incapacità di partire dalle
cose semplici, dall'avamposto di quartiere, da quella buona gestione ordinaria
che poi, di fronte all'impegno straordinario, è la sola garanzia di farcela. Il
giorno che la prosperosa, laboriosa, pragmatica Lombardia trovasse la forza di
fare davvero i conti con se stessa, come giudicherebbe una sanità che maneggia
macchinari spaziali, salva vite con diagnosi formidabili, ma non sa più tenere
in mano una siringa? Tratto da “La
politica e la scienza” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri 22 di marzo: (…). …in realtà quello a cui stiamo assistendo
è per buona parte soltanto l'esito finale, amplificato dalla pandemia, di un
processo di delegittimazione del sapere in atto da anni, guidato dal populismo.
Portatori di una controcultura alternativa, i populisti negano infatti
l'impianto culturale su cui si regge la società e non sono interessati ad una
trasmissione dell'esperienza e a una condivisione della competenza, perché
puntano ad una sostituzione integrale e non a un ricambio. Tutto l'accumulo del
nostro conoscere diventa dunque inutile: peggio, sospetto, perché il sapere si
riduce a una strumentazione del potere, e diventa semplicemente un suo
strumento di difesa e di salvaguardia gerarchica. È lo stesso nucleo
concettuale del negazionismo tornato in piazza, che per poter rifiutare la
realtà ha bisogno di costruirsi una struttura cognitiva incentrata sulla
manipolazione, sul complotto e sull'inganno: dunque sulle manovre di un nemico
insediato nell'élite del governo mondiale che sfrutta il Male per conculcare la
libertà del cittadino, introducendo una "tirannia sanitaria" arbitra
della vita delle persone, nell'interesse della solita catena di comando formata
dalla Ue, dalla trojka, dalla Bce, dalle multinazionali, a cui ai aggiunge
adesso l'Oms, l'organizzazione della sanità. Siamo evidentemente all'ultimo
grado di questa distorsione del potere teorizzata dalla coppia
negazionismo-populismo, cioè il controllo della salute degli individui come
strumento intimo e definitivo della biopolitica del controllo sociale, e lo
sfruttamento del virus come agente politico capace di disattivare la coscienza
e l'autonomia dei cittadini. Questo era il sentimento - o meglio il
risentimento - latente in alcune fasce minoritarie del Paese, a cui il caso
AstraZeneca ha fatto da catalizzatore. Ma la vicenda ci chiede di riflettere
anche sul meccanismo di formazione dell'opinione pubblica. Questo tipo di
informazioni cortocircuitate in allarmi viaggia prevalentemente sui social
network, strumento formidabile della comunicazione orizzontale in cui ogni
utente è anche agente, fonte, moltiplicatore e lettore nello stesso tempo: ma
privi per loro natura, per funzione e per definizione, di quell'organizzazione
gerarchica delle notizie - su carta o sul web - che è il primo strumento di
misura del mondo, con la responsabilità di "pesare" i fatti per
ordinarli e comporli dentro una struttura organica di interpretazione della
realtà. Il risultato è un'opinione pubblica costantemente sollecitata più che
informata, eccitata superficialmente, sospinta verso un'emozione piuttosto che
verso una cognizione. Ecco perché al fondo di questi processi deve restare la
potestà della politica. Che certo è influenzata dal flusso della società e
dalla sua sensibilità, ma soprattutto ha il compito di guidarlo, così come deve
accompagnare la libertà di ricerca della scienza con un indirizzo di sviluppo
generale. Questo è il governo della nuova democrazia dell'emergenza: il dovere
di scegliere e di decidere, avendo il polso del Paese sotto stress, con la
scienza come driver, chiudendo lo spazio ad allarmismi, superstizioni ed
esorcismi, se non vogliamo che si riapra la vecchia discussione sui vaccini che
divise l'Italia nel 1960 all'epoca del primo rimedio Salk contro la
poliomielite, prima che Mancini lanciasse la campagna Sabin, rimediando ad un
ritardo di tre anni rispetto all'Urss e ai Paesi dell'Occidente. Come allora
sessant'anni dopo bisogna ricordare che quella dei vaccini è una battaglia per
la salute, ma è anche una battaglia di civiltà. Tanto che quando a Salk
chiesero perché non aveva brevettato il suo rimedio rispose: "Si può forse brevettare il sole?". Al
vertice del triangolo difensivo, la politica deve evitare che si squilibri il
rapporto tra potere e sapere da un lato, e tra la collettività e il sapere
dall'altro, in quanto le ragioni scientifiche sono l'unica chiave di
interpretazione dell'emergenza e l'unica base del consenso che porta la
popolazione ad assoggettarsi volontariamente alle regole disciplinari di
salvaguardia. Molto semplicemente, nella crisi che stiamo vivendo la scienza è
un'infrastruttura della democrazia.
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