"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 23 marzo 2021

Paginedaleggere. 08 Jonas Salk: «Si può forse brevettare il sole?».

 

Ha scritto oggi – martedì 23 di marzo 2021 - Michele Serra in “L’eccellenza e la siringa”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). E allora, come si fa a non buttarla in politica? Che frutti ha dato, alla prova dei fatti, il forsennato aziendalismo che è stato il faro del centrodestra per decenni, del quale l'opera formigoniana prima, quella leghista dopo, sono stati esecutori zelanti, e la signora Moratti è oggi la molto tardiva testimone? (Moratti sta all'aziendalismo come Cossutta stava all'Unione Sovietica: tetragoni al tempo che cambia il mondo). Se ciò che non è "eccellenza" diventa solo un costo, una zavorra imputabile di nuocere ai bilanci, come stupirsi se i medici di base si ritrovano soli e male attrezzati per l'emergenza? C'è un'umiltà bestemmiata, nello sviluppo in auge, una tragica incapacità di partire dalle cose semplici, dall'avamposto di quartiere, da quella buona gestione ordinaria che poi, di fronte all'impegno straordinario, è la sola garanzia di farcela. Il giorno che la prosperosa, laboriosa, pragmatica Lombardia trovasse la forza di fare davvero i conti con se stessa, come giudicherebbe una sanità che maneggia macchinari spaziali, salva vite con diagnosi formidabili, ma non sa più tenere in mano una siringa? Tratto da “La politica e la scienza” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 22 di marzo: (…). …in realtà quello a cui stiamo assistendo è per buona parte soltanto l'esito finale, amplificato dalla pandemia, di un processo di delegittimazione del sapere in atto da anni, guidato dal populismo. Portatori di una controcultura alternativa, i populisti negano infatti l'impianto culturale su cui si regge la società e non sono interessati ad una trasmissione dell'esperienza e a una condivisione della competenza, perché puntano ad una sostituzione integrale e non a un ricambio. Tutto l'accumulo del nostro conoscere diventa dunque inutile: peggio, sospetto, perché il sapere si riduce a una strumentazione del potere, e diventa semplicemente un suo strumento di difesa e di salvaguardia gerarchica. È lo stesso nucleo concettuale del negazionismo tornato in piazza, che per poter rifiutare la realtà ha bisogno di costruirsi una struttura cognitiva incentrata sulla manipolazione, sul complotto e sull'inganno: dunque sulle manovre di un nemico insediato nell'élite del governo mondiale che sfrutta il Male per conculcare la libertà del cittadino, introducendo una "tirannia sanitaria" arbitra della vita delle persone, nell'interesse della solita catena di comando formata dalla Ue, dalla trojka, dalla Bce, dalle multinazionali, a cui ai aggiunge adesso l'Oms, l'organizzazione della sanità. Siamo evidentemente all'ultimo grado di questa distorsione del potere teorizzata dalla coppia negazionismo-populismo, cioè il controllo della salute degli individui come strumento intimo e definitivo della biopolitica del controllo sociale, e lo sfruttamento del virus come agente politico capace di disattivare la coscienza e l'autonomia dei cittadini. Questo era il sentimento - o meglio il risentimento - latente in alcune fasce minoritarie del Paese, a cui il caso AstraZeneca ha fatto da catalizzatore. Ma la vicenda ci chiede di riflettere anche sul meccanismo di formazione dell'opinione pubblica. Questo tipo di informazioni cortocircuitate in allarmi viaggia prevalentemente sui social network, strumento formidabile della comunicazione orizzontale in cui ogni utente è anche agente, fonte, moltiplicatore e lettore nello stesso tempo: ma privi per loro natura, per funzione e per definizione, di quell'organizzazione gerarchica delle notizie - su carta o sul web - che è il primo strumento di misura del mondo, con la responsabilità di "pesare" i fatti per ordinarli e comporli dentro una struttura organica di interpretazione della realtà. Il risultato è un'opinione pubblica costantemente sollecitata più che informata, eccitata superficialmente, sospinta verso un'emozione piuttosto che verso una cognizione. Ecco perché al fondo di questi processi deve restare la potestà della politica. Che certo è influenzata dal flusso della società e dalla sua sensibilità, ma soprattutto ha il compito di guidarlo, così come deve accompagnare la libertà di ricerca della scienza con un indirizzo di sviluppo generale. Questo è il governo della nuova democrazia dell'emergenza: il dovere di scegliere e di decidere, avendo il polso del Paese sotto stress, con la scienza come driver, chiudendo lo spazio ad allarmismi, superstizioni ed esorcismi, se non vogliamo che si riapra la vecchia discussione sui vaccini che divise l'Italia nel 1960 all'epoca del primo rimedio Salk contro la poliomielite, prima che Mancini lanciasse la campagna Sabin, rimediando ad un ritardo di tre anni rispetto all'Urss e ai Paesi dell'Occidente. Come allora sessant'anni dopo bisogna ricordare che quella dei vaccini è una battaglia per la salute, ma è anche una battaglia di civiltà. Tanto che quando a Salk chiesero perché non aveva brevettato il suo rimedio rispose: "Si può forse brevettare il sole?". Al vertice del triangolo difensivo, la politica deve evitare che si squilibri il rapporto tra potere e sapere da un lato, e tra la collettività e il sapere dall'altro, in quanto le ragioni scientifiche sono l'unica chiave di interpretazione dell'emergenza e l'unica base del consenso che porta la popolazione ad assoggettarsi volontariamente alle regole disciplinari di salvaguardia. Molto semplicemente, nella crisi che stiamo vivendo la scienza è un'infrastruttura della democrazia.

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