Ha scritto “Filelfo” – magistrale e misterioso
Autore – alle pagine 61 e 62 del Suo volume “L’assemblea degli animali” – Einaudi editore (2020), pagg. 176,
Euro 15 –: “(…). Solo nei sogni l’uomo avrebbe avuto frammenti di visioni delle
vite precedenti, (…). Ma avendo perso il ricordo di tutti i linguaggi della
natura, delle sue regole, delle sue maniere, dei suoi divieti, delle sue connessioni,
delle sue rotte, dei suoi indirizzi segreti, e non possedendo né memoria né
prescienza, non conosceva le conseguenze remote dei suoi atti. Non era e non
sarebbe stato in grado di distinguere il ciclo delle reincarnazioni, traendone
insegnamento. Né era o sarebbe stato in grado – salvo rare eccezioni – di profetare
né di vedere ciò che sarebbe stato. Oltre al passato aveva dimenticato anche il
futuro. Dotato di postura eretta e pollice opponibile, questa scimmia nuda era
condannata a un’illusoria e miope attività di pianificazione e previsione, che
serviva solo i propri aneliti momentanei e individuali, scissi dall’unico
grande palpito desiderio cui tende il ciclo della natura, in cui ogni cosa
muore d’amore per l’altra. (…)”. Di seguito la riflessione di Maurizio Maggiani
- dopo la lettura di quella straordinaria “favola ecologica” - pubblicata sul
quotidiano “la Repubblica” di oggi, 13 di marzo 2021, col titolo “Il Patto con gli animali per il nostro
Eden perduto”: (…), dovrei pur imparare a lasciarmi andare ancora una volta almeno
alla favola bella dove trovare consolazione e fiducia; ma poi mi vengono in
mente le foglie, sì, le foglie. E le foglie non sono una fiaba, ce le ho qui
sotto i piedi. Le foglie che ancora una volta al tempo dovuto hanno preso a
cadere, e ancora adesso che l’albicocco ha già le rame in gran fiore, nel
giardino della Fratellanza la roverella continua a lasciar andare le sue
nell’ultima buriana. È singolare come faccia così poco caso alle foglie quando
sono ancora al loro posto sugli alberi, certo, sono lì, le vedo e tiro avanti.
Ma quando cadono io prendo e vado a guardarle, le guardo e le riguardo quante
più posso perché ai miei occhi sono bellissime, la cosa più bella della loro
stagione. Muoiono le foglie quando cadono? Dicono di sì, e dunque la morte è
una cosa bella da vedere. La cosa più bella da vedere delle foglie. E io vedo
che quando le foglie cadono hanno un disegno, come le stelle del cielo; è un
progetto, un’intenzione che si compie solo alla fine del tempo delle foglie
cadenti. E la loro bellezza è una per una, eppure, se così fosse, non
basterebbe, perché la loro più grande e più vera bellezza è nel tutto, nella
composizione che si disvela portando gli occhi a terra. Non nella morte in sé,
dunque, ma nell’ecatombe, nella strage sarebbe la bellezza più grande. Se è
vero che le foglie cadendo muoiono. Nell’infinito romanzo della Bibbia, dice il
libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte. Ha creato le cose perché
esistano, le forze presenti nel mondo sono per la vita e non hanno in sé nessun
germe di distruzione, sulla terra non sarà della morte l’ultima parola». Già,
(…), la morte non è faccenda che riguardi l’universo, è solo disordine umano, è
l’orma della mia suola, il getto di piscio, la carta di caramella, il puntale
del mio bastone, io che passo e mi fermo a guardare, e cogito. Ergo sum. Le
foglie sono, sono sull’albero e sono cadendo, ma pensano? Vallo a sapere, io
non lo so, (…). Io non sono di loro, io non parlo con loro e loro non parlano a
me. Capita in certi momenti beati di lasciarmi pensare diversamente ma è solo
dolce, consolante chimera, il mio stato di umano mortale necessita dell’assidua
cura della consolazione. Io sono solo colui che passa, si ferma e guarda. E
siccome ha inventato la morte, può risolversi a pensare che le foglie quando
cadono vanno a morire in un meraviglioso disegno di pura bellezza. Da dove sono
venuto per arrivare fin qui, all’orma delle mie suole tra le foglie? (…). …vengo dall’Eden, la meraviglia del
creato, il giardino dove si compendia il perfetto disegno dell’universo. Là,
nella perfezione, ero tutt’uno con ogni essere e cosa, con le foglie e il
serpente, l’argilla e il corvo, se pensavo, pensavo con ognuno di loro, animale
tra gli animali, acqua nell’acqua. Beatitudine senza ombra, la morte non aveva
speranza alcuna di ingresso. Poi è successa una cosa strabiliante, solo a me,
singolarità nell’evoluzione, un demone mi ha offerto la conoscenza, lo sguardo
dall’alto sull’universo, non solo pensare, ma anche sapere, e sapendo,
scegliere. Libero arbitrio, il bene e il male, la vita e la morte. (…). Ma io
penso che no, il creato non conosce, l’universo è, e io ho rotto il grande
disegno, infranto il perfetto equilibrio, sciolta la comunione, disturbatore
dell’universo l’universo mi ha espulso dal beato giardino, e sono diventato
umano, la specie tutta cultura e sentimento. Una creatura zoppa e solitaria che
non potrà che andare e andare e andare, e imparerà a fare della sua zoppità e
solitudine armi micidiali di sopravvivenza. Ha imparato molte altre cose
strabilianti, ma non imparerà mai la strada per tornare da dove è venuta. La
cacciata è per sempre, l’andarsene è stata la scelta a un bivio di strade che
si uniranno all’infinito. Un milione di volte ho sognato di poter tornare, ogni
volta che ho scelto per la vita ho pensato a un passo per il ritorno, ogni
volta che ho scelto per la morte so di aver scavato un fosso alle mie spalle,
ma anche se gli umani dovessero un giorno arrivare a sapere tutto, tutto quello
che sapranno è solo la loro lingua. Solo di certi santi, forse uno per
millennio qua e là per le terre del mondo, si sospetta che abbiano imparato la
lingua di altri esseri, talmente splendente la loro inumanità che altri esseri
si sono fidati a insegnargli la loro; quello che facciamo noi altri è mettere
in bocca agli animali la nostra lingua, fargli il torto di renderli umani.
Eppure l’umano tra il molto che fa può ancora scegliere per la vita, (…), e se
non può tornare può continuare a sognare senza rattrappirsi in un incubo. I
sogni sono grandi potenze costruttrici. Sono nato all’aria aperta,
letteralmente, sono cresciuto in mezzo alle piante e agli animali, sguazzato
nel fiume, infangato nella mota, ma niente era selvaggio intorno a me, tutto
domestico, l’umano era ovunque, persino nei lombrichi che andavo a raccogliere
sotto il letame per farne esca nella pesca dell’anguilla, se c’era qualcosa di
veramente selvatico era l’indole di certi umani. Selvaggio, incontaminato, non
erano parole della nostra lingua, fossimo stati capaci di pronunciarle sarebbe
stato per definire una insensatezza di pericolosa inutilità, eppure sono
vissuto nella familiare naturalezza con ogni cosa fino all’orizzonte. Questo in
virtù di un duro complicato accordo tra gli umani e l’universo, frutto di
trattative plurimillenarie con la grandine e il serpe, la cicoria e l’asino, il
pero e l’acqua. Un patto per la salvezza sancito nella rudimentale, impoetica,
lingua di quegli umani, un patto che per la sua osservanza pretendeva molte
vittime, anche tra loro. Sì, mia nonna parlava con l’orto e mio nonno con la
vigna e la cavalla, forse in quella lingua ancora allignava l’orma fossile del
beato giardino, ma il suo nome era ignoranza, arretratezza, superstizione,
miseria. I bei tempi non erano così belli, e io che so cosa è andato perduto,
ma non tornerei neanche morto a impiastrarmi di merda perché non ho centrato il
buco nella baracchetta in fondo all’orto. Il mio destino, il mandato della
cacciata è andare, andare, andare, e il meglio che posso fare è evitare di
innamorarmi della morte e invitarla a banchetto, Sapienza I, 16. Ingegnarsi per
un nuovo patto, (…), è consolazione intanto che lasciamo al tempo di fare il
suo lavoro, ma, volendo, il vecchio accordo è ancora lì anche se non so
calcolare di quanto eroismo è necessario disporre per riaprirne il tavolo, né
di quante vittime andrebbe tenuto il conto. Né, tantomeno, se al tavolo vedrò
sedersi il creato. In ogni caso la posta non sarà la vita sul pianeta Terra, ma
solo la vita degli umani a venire. Per quanto danno possiamo fare, non sarà mai
niente in confronto alle telluriche tregende dell’era permiana.
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