Ha scritto Marco Travaglio in “Zingarella” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri venerdì 5
di marzo 2021: (…). Per rinviare la politica a data da destinarsi, si è optato per due
governi in uno: quello vero, che fa capo a Draghi, ai suoi tecnici e a
Giorgetti, più il capo della Polizia e un generale dell’Esercito, che si
occupano della ciccia senza render conto a nessuno; e quello finto dei ministri
presi dai governi Conte e B., con funzioni puramente decorative. Il silenzio di
Draghi regala praterie a Salvini, che come sempre blatera (così molti credono
che faccia tutto lui, come nel Conte-1, senza neppure il fastidio della
sinistra che gli dà del fascista o gli ricorda i flop della sua Lombardia). FI
si ricompatta col sacro mastice del potere e pare addirittura un organismo
vivente (c’è persino la Gelmini in vetrina). E la Meloni incassa consensi da
esclusivista dell’opposizione, pronta a riunirsi con Matteo e Silvio in tempo
per le urne. Chi sta meglio di loro? Il prezzo lo pagano tutto i 5Stelle, il Pd
e LeU, che non toccano palla in un governo fatto apposta per il centrodestra.
Con la differenza che il M5S ha almeno la carta Conte da giocare. Il Pd nemmeno
quella. Zingaretti, con tutti i suoi limiti, era sopravvissuto a due scissioni
(Renzi e Calenda) riscoprendo un barlume di progressismo, azzeccando l’asse col
M5S e guadagnando consensi: peccato mortale, per un partito a vocazione
suicidiaria per via della variante renziana. Quod non fecerunt Napolitani
fecerunt Mattarelli. Tratto da «Draghi, un uomo
“concreto”? Non dice nulla e piace a tutti» di
Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di febbraio 2021: La
cortina fumogena dei turiboli agitati da (quasi) tutte le forze politiche e le
testate rende difficile prendere il discorso al Senato di Mario Draghi per
quello che realmente è: un testo ordinario, non sorretto da una particolare
visione e irto invece di luoghi comuni del nostro tempo, e di travestimenti
retorici atti a piacere a tutti, cosa possibile solo dicendo il meno possibile.
Il pianeta come la moneta, le persone come capitale umano, l’istituto tecnico
come avviamento professionale delle classi subalterne, i migranti economici da
rimpatriare: il vocabolario è quello liberista corrente (come dimostra il
plagio con cui Draghi ha inglobato nel suo discorso intere parti di un articolo
dell’ultraliberista Giavazzi). Un discorso che, quando tocca le materie
dell’articolo 9 (testo dell’articolo 9: “La Repubblica promuove lo
sviluppo e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione” n.d.r.), mostra il disallineamento con
il progetto della Costituzione. Mai menzionata nel discorso, quest’ultima è
stata invece citata nella (raccogliticcia) replica serale al Senato: per dire
che Draghi faceva sua la proposta di Conte di inserire in Costituzione “un
punto sull’ambiente e sul concetto di sviluppo sostenibile”. Non tornerò sulla
pericolosa ipocrisia del concetto di “sviluppo sostenibile”, ma non si può non
sottolineare che l’ambiente in Costituzione c’è già. La costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale ha chiarito che il “paesaggio” dell’articolo 9 è
l’ambiente, la biosfera. E nell’articolo 117 riformato nel 2001 si cita
esplicitamente la “tutela dell’ambiente”. Allora, perché perdere tempo con cose
pleonastiche? In genere, quando i governi propongono di cambiare la
Costituzione (cosa che non spetterebbe loro) è perché sanno che non la
attueranno. E sulla cultura? Molta facile retorica: “Sulla cultura stamattina
ho detto che l’Italia è una grande potenza culturale riconosciuta in tutto il
mondo”. Difficile dissentire: non vuole dire nulla. Più incoraggiante il
passaggio (sempre della replica, significativamente) in cui Draghi dice che “soprattutto
occorre rinforzare le tutele dei lavoratori (dello spettacolo, ndr) e va colta
l’opportunità del Next generation per potenziare gli investimenti sul
patrimonio culturale”. Bene, ma nulla della concretezza che ci si aspetta
dall’uomo dei numeri: quanto, quando, come? Vedremo. Più inquietante la
continua associazione (sia nel discorso sia nella replica) dei concetti di
cultura e identità: parola, quest’ultima, carissima alle destre neofasciste, e
impronunciabile senza specificare cosa si intende. Ma c’è un punto in
particolare, nelle dichiarazioni programmatiche mattutine, che squarcia il velo
su cosa davvero l’ex banchiere pensi della tutela di ambiente e patrimonio
culturale: “Come ha detto Papa Francesco: ‘Le tragedie naturali sono la risposta
della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore
che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a
rovinare l’opera del Signore’. Proteggere il futuro dell’ambiente,
conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio
nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud
computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità,
riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida
poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le
azioni umane. Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno
cambiare. Ad esempio, il modello di turismo, (…) che avrà un futuro se non
dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno
non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni
attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato”. Dunque,
prima si cita il papa: ma in uno dei suoi rari “discorsi da prete”, non nei
densissimi testi profetici delle encicliche. Poi si dice che l’ambiente va
conciliato col “progresso” (leggi: crescita), con un elenco di cose
diversissime, senza esplicitare la direzione politica o di scelta (non si
lancia, ad esempio, la Grande Opera di messa in sicurezza del territorio che
aspettiamo da decenni; né ci si pronuncia sulle grandi opere cementizie).
Invece, si fa l’esempio del turismo, forse per non parlare di produzione
industriale e modello energetico, ben altrimenti impattanti sul pianeta, e
assai più imbarazzanti da affrontare. E sul turismo che si dice? Non cose
chiare (tipo: “basta grandi navi in Laguna”), ma solo che se il turismo
“sciupa” (scelta semantica tra il salottiero e il romantico) le città, non avremo
più turismo: cioè la tutela del patrimonio culturale al servizio della
valorizzazione economica, in quella micidiale inversione di senso e priorità
che è il problema, in tutti i campi, non la soluzione. Niente di sconvolgente,
intendiamoci: sono i discorsi che sentiamo da decenni, di governo in governo.
Non è stato certo un discorso da squalo. Semmai, è stato il discorso vegano di
un lupo. Gli Agnelli possono stare tranquilli: ma solo quelli con la maiuscola.
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