Tu quando ti sei unito alla combriccola del giovedì? "Alla fine degli anni 60. Ascoltavo senza dire una parola. Perché ero il più giovane e perché parlava quasi soltanto Brera".
Serate di goliardia virile. Mogli e fidanzate non erano ammesse. "La loro presenza era consentita solo l'ultimo giovedì prima di Natale".
Che si beveva? "Soprattutto Barbaresco. Rigorosamente di Oddero e in caraffa. Grazie al Barbaresco Brera mutò il suo giudizio su Rivera".
Calcistico? "Umano. Fino ad allora lo aveva considerato un fighetto da acqua Fiuggi. Poi una sera, qui, vide che da buon piemontese Rivera poteva reggere notevoli quantità di vino. Così da «Abatino» lo promosse a «Episcopus»".
Ma l'ostracismo anti-Rivera i milanisti ancora non glielo perdonano. "Certo, l'amore perfetto fu con Riva, nel quale vedeva il Vir padanus, la sublimazione delle sue idee di forza fisica e coraggio da spaccarsi le gambe. Però verso Rivera non nutriva un pregiudizio. Non gli andava che giocasse col numero 10 a centrocampo. Per Brera il centrocampista italiano per eccellenza era stato Valentino Mazzola. Rivera non era un leone nei contrasti e non avrebbe mai potuto fare il lavoro di Mazzola. Però ne faceva un altro molto importante: illuminava il gioco. Una volta, ai mondiali in Germania, mi disse: 'Lui (non pronunciava mai il nome di Brera) è un maestro di stile e mi rimprovera la stessa cosa: lo stile. Comunque io non leggo'. Gli risposi: tanto lo legge qualcuno per te".
Di riffa o di raffa, Brera lo leggevano tutti. A cominciare dai suoi odiatori. Ma alla fine Gioânn per chi tifava? "Inter. Anche se per evitare rotture si dichiarava genoano. Senti...".
Dimmi. "Ti piacciono le moeche?".
Mai assaggiate, ma temo di sì. Quando veniva qui, il carnivoro Brera si piegava al pesce? "Sì, anche se preferiva quello d'acqua dolce. Sembrerà strano, ma non lo ricordo come un gran mangione".
In effetti è una notizia. Quando vi eravate conosciuti? "Il primo incontro a tu per tu fu nella sua casa di Pusiano, febbraio 1965. Da giovane praticante, io avevo ambizioni intellettuali, sognavo di soffiare il posto a Moravia sulle terze pagine del Corriere. Consideravo lo sport terra di infedeli, ma leggevo Brera sul Giorno perché mi colpiva il suo linguaggio innovativo. Mi disse: vieni e ne parliamo un'oretta. Arrivai alle 11 e me ne andai alle 6 del pomeriggio. M'ero presentato con un paio di mocassini neri molto carini, ma appena mi vide Brera disse: prima aiutami a tirare su le uova dal pollaio. Era piovuto tutta notte. Il pollaio era un misto di merda e fango alto così. Ci affondavo fino al malleolo. Mentre raccoglievo le uova, lui mi ripeteva di stare attento a De Gaulle. Era un'oca cattiva che Brera aveva soprannominato così perché di profilo era identica al Generale. Lui aveva un senso molto acuto delle fisionomie".
Avevate 26 anni di differenza. Come siete diventati amici? "A tavola, battesimo del fuoco furono i Mondiali tedeschi del '74. Una sera, a Monaco, mi dice: 'Andiamo a cena, ma in un posto dove si sta leggeri. Ho problemi di stomaco'. Mi porta da un serbo e tanto per cominciare rimanda indietro tre bottiglie di vino perché sanno di tappo. Poi quando arriva il cevapcici ci gratta sopra un due etti di cipolla cruda. Quindi s'incazza perché la paprika del gulasch è troppo dolce. Meno male che gli faceva male lo stomaco".
E meno male che non era un gran mangione. Poi? "Due anni dopo, Olimpiadi di Montréal. Per fortuna o per disgrazia ci assegnano due stanze vicine. Davano su un corridoio triste. Ci avevano messo in un college con le sbarre alle finestre. Il bar chiudeva alle 11. Brera era fuori di sé. Camera sua divenne il bar. Rientrando, trovavo sotto la porta biglietti con scritto: vieni per il cicchetto della staffa, non lasciare solo un povero vecchio. Andavo. E si tirava avanti fino alle tre o alle quattro di mattina. Il problema è che io dovevo alzarmi alle otto, mentre lui poteva dormire fino all'una".
A colazione non si vedeva. "La colazione la facevo con Arpino. Era bello girare con lui. Nel quartiere italiano aveva scoperto un bar dove il caffè era ottimo, peccato che fossero fascisti, con foto del Duce sulle scatole dei cerini. Qualche volta con Arpino andammo anche in carrozza. Con Brera già non si parlavano più. Io mi dividevo tra i due".
Scusa Gianni, ma delle moeche si mangiano anche le chele? "Tutto, tutto".
Ok. Quando tu hai cominciato a frequentarlo, Brera era già Brera e fortemente consapevole di esserlo. "Altroché".
Eri in soggezione? "All'inizio un po' sì. Dopotutto aveva gli anni di mio padre. Era un generoso. Lo ammiravo perché aveva cambiato il linguaggio. Prima artigianalmente e poi studiando fino a raggiungere lo stile-Brera, un alternarsi di alto e basso, aulico e plebeo, i latini, Guicciardini o Leopardi mischiati col dialetto. In questo si inseriva nell'atmosfera di rinnovamento del Dopoguerra. All'epoca molti di quelli che avevano scritto sui giornali fascisti si erano riciclati nello sport, ma tirandosi dietro una scrittura estremamente retorica, fatta di "fantaccini all'assalto", "estremo sacrificio", "cuore oltre l'ostacolo"... Per reazione, e anche come forma di lotta all'analfabetismo, i giornali mandarono a scrivere di sport, il genere più popolare, le firme migliori. Da Montanelli ad Alfonso Gatto, dalla Ortese a Pratolini a Orio Vergani.
L'operazione di Brera è figlia di quel fermento".
Presto diventò autorevole, ma gli rimproveravano un certo dogmatismo, e i pronostici spericolati... "Furono due le grandi smentite delle sue teorie. Di Mennea diceva che era troppo gracile per poter battere quegli armadioni dei suoi avversari, mentre di Merckx sosteneva che non avrebbe mai vinto una grande corsa a tappe perché seguiva una dieta povera di carboidrati. In entrambi i casi le cose andarono altrimenti. Ma i pronostici erano per lui una sfida, una forma di giornalismo militante e insieme di gioco. In un pronostico di Brera confluivano le sue conoscenze in materia di storia, geografia, etnologia, alimentazione".
Però, leggendolo, gli intellettuali alzavano il sopracciglio. Umberto Eco lo definì un "Gadda spiegato al popolo". E lui se la prese. "Brera poteva scrivere 18 cartelle a pomeriggio, una volta ne dettò 33 a braccio. Sfornava piatti da ristorante, ma a ritmi da pizzeria. Non ce lo vedo Gadda a lavorare in velocità. Comunque a Eco rispose: 'Siccome è colto e conoscerà i dialetti, ho una sola cosa da dirgli: pirla!'".
Anche con Pasolini, che lo accusava di scimmiottare Gianfranco Contini, volarono straccetti... "Con lui Brera andò giù più pesante. Disse: 'Se non lo prendo a calci nel culo è perché gli farebbe piacere'".
Nell'epoca del politicamente corretto sarebbe finito sul rogo. "Una volta scrisse che durante un'azione Boninsegna si era liberato 'con mossa da nanazzo maligno'. Una lettrice gli rispose indignata: 'Come si permette? Io sono nana, ma non maligna'. In quel caso lui si scusò".
Si rideva molto con Brera? "Sì, ma più spesso lo stavi ad ascoltare perché era un grande affabulatore. Classici erano i racconti di quando era stato militare paracadutista o del Po attraversato a nuoto...".
E della Resistenza? "Di quella parlava poco, se non per dirne che non aveva sparato un colpo".
Nel '54 se ne andò dalla Gazzetta tra bislacche accuse di cripto-comunismo. Però tu sei sempre stato più a sinistra di lui. "Diceva: 'Sono favorevole al comunismo purché arrivi quando sarò morto. Altrimenti rischia di togliermi il whisky buono'. Era più rosa che rosso. A San Zenone, il suo paese, i socialisti erano sempre stati molto forti".
Si candidò due volte col Psi e una con i Radicali. Che c'azzeccava con la politica? "Non lo so. Niente. Forse erano pose, vanità senile".
Aveva accenti da proto-leghista. "La parola 'Padanià l'ha usata prima lui di Bossi, ma vedendo il Senatùr in televisione disse che sembrava il tenutario di un casino".
Però anche il gran Gioânn inciampò in qualche intemerata contro i "meridionali parassiti". "A un comizio tuonò che li avrebbe rispediti tutti al Sud. Ma poi si alzò un tizio e disse: 'Sono di Potenza, qui al Nord ho sempre lavorato, mi sono sposato e ho cresciuto i miei figli. Perché vuole cacciarmi via?'. Brera scese ad abbracciarlo. Cosa che non dimostra niente, me ne rendo conto".
Ora Salvini se ne appropria via social: "Brera quanto ci manchi". "Ah sì? Ma, che vuoi, Salvini si appropria di tutto".
GB era un populista? "Penso che tecnicamente lo si possa definire così. Aveva una passione per le plebi, per l'inventiva linguistica del popolo, la sua nobiltà calpestata. Indicativo che come pseudonimo si fosse scelto quello di 'Principe della zolla'".
Tra voi mai nessuna lite? "No, ma se non ero d'accordo glielo dicevo".
Tipo? "Quando accettò di andare al Processo di Biscardi. Mi sentivo abbattuto. Era come scendere nella Cloaca Massima. Gli chiesi: ce n'era proprio bisogno? E lui, mettendomi una mano sulla spalla: 'Giovannino, se sapessi quanto mi danno...'".
Come funzionava Brera in tv? "Non tanto bene, ma dipendeva dalle tv. Aveva cominciato con le emittenti lombarde, e lì era come un papa. Poteva fumare la pipa, aveva la sua bottiglia di whisky... Nuotava nella sua acqua. Anche alla Domenica sportiva non era male, ma perché a fargli le domande c'era Beppe Viola, breriano di formazione, che non gli chiedeva minchiate tipo 'rigore sì o rigore no?'. Quella di Biscardi invece era un'altra tv, dai tempi poco adatti a Brera".
Oggi Brera che cosa farebbe? "Il disoccupato. Non ce lo vedo a lavorare al computer. Lo detestava. Diceva che ti cambia le parole in testa prima di scriverle. Adesso nessun giornale ti lascerebbe raccontare un dribbling di Pelé scandito dai versi di La sera del dì di festa di Leopardi. Certo, la scrittura media dei quotidiani sportivi è migliorata, ma stabilizzandosi al ribasso. Leggere un pezzo di Brera voleva dire compiere un piccolo moto ascensionale di due o tre gradini. Oggi invece quei gradini tutti trovano più comodo farli scendere al lettore. E poi c'è un pubblico che sa tutto anche del campionato nepalese, ha più informazione ma meno profonda. Può farne a meno. Ai tempi di Brera, anche quelli che lo maledicevano e gli mandavano lettere minatorie attendevano il suo responso. Da lui non potevi aspettarti acqua liscia, ma sempre frizzante. Diceva: 'Non scrivere mai quello che il lettore si aspetterebbe. Scrivi quello che pensi. Non preoccuparti di piacere a tutti. Se non altro perché non si può'".
Alla sua morte tu ti trovavi a Malta con la Nazionale. Da lì scrivesti uno dei più bei "coccodrilli" del Novecento. Però per non rovinarci il pranzo non ti chiederò se ti consideri il suo erede. "Grazie. Ho sempre rifiutato la qualifica. Brera non ha eredi. Chiarito ciò, confesso di essermi commosso quando, al funerale, i vecchi di San Zenone mi tiravano per la manica dicendo: 'Adesso tocca a lei'. La presi per una specie di investitura popolare".
Alla cerimonia non c'era nessuno dei suoi eroi. "Nemmeno uno. C'erano Fabio Capello, l'ex mediano del Milan Pelagalli e qualche dirigente, ma di calciatori in attività nessuno. E neanche a dire che fosse tempo di partite, mancavano pochi giorni a Natale".
Farsi vedere al funerale di Brera era compromettente? "Macché. Era puro menefreghismo. In un pezzo li chiamai 'marchettari senz'anima'".
La grande famiglia dello sport. "Vabbè. Era buono il fritto?".
Cum laude. "Allora prima del sorbetto usciamo a fumarci una sigaretta".
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