Tratto da “Così
il nemico invisibile ha cambiato le nostre paure” di Massimo Recalcati -psicoterapeuta
di scuola lacaniana -, pubblicato nel “longform” del quotidiano “la Repubblica”
del 21 di febbraio 2021: La prima manifestazione della sofferenza che
ha coinciso con lo scoppio dell’epidemia ha assunto le forme dello spavento e
dell’angoscia nei confronti di una minaccia che si è rivelata, al tempo stesso,
indeterminata e incombente. Questo ha innescato comportamenti collettivi
regressivi di cui sono stati esempi i saccheggi dei supermercati e gli assalti
ai treni, la fuga dai territori più colpiti dal virus, dal Nord verso il Sud.
L’esigenza impellente era quella di allontanarsi il più rapidamente possibile dal
pericolo ma, come avviene nella tragedia greca, coloro che vogliono allontanarsi
dal male ne divengono spesso tremendi diffusori. Il carattere sistemico
dell’epidemia ha del resto soppresso l’idea che possa esistere davvero un "fuori
pericolo", un luogo non ancora intaccato dalla presenza minacciosa del
virus. Pandemia significa infatti che il virus è dappertutto e che non può
esistere un luogo sicuro nel quale rifugiarsi.
In quelle settimane la sensazione più diffusa è stata quella
dell’intrappolamento. Da qui la diffusione
del panico che ha segnalato il venir meno dello scudo protettivo
(fobico-paranoico) che abitualmente difende i nostri confini identitari dal
rischio di subire una intrusione: distinguere l’amico dal nemico, il familiare dall’estraneo,
il conosciuto dallo sconosciuto, il buono dal cattivo. Con la deflagrazione
dell’epidemia tutte queste distinzioni sono state polverizzate e le nostre
carte si sono mescolate drammaticamente: chi è davvero amico e chi è davvero nemico? Chi è familiare e chi è estraneo? Di chi mi posso fidare e di chi no? Il virus ha scompaginato brutalmente queste ripartizioni
ordinarie tracciando una nuova geografia nella quale l’amico, il congiunto, il
padre, il figlio, persino il medico o io stesso, possono rivelarsi veicoli
della malattia e della morte. La risposta
sanitaria alla minaccia pervasiva del virus è stata quella del confinamento. In
questo modo si è provato a restaurare le barriere difensive che l’impalpabilità
oscura del nostro nemico aveva fatto saltare. Per questa ragione molti pazienti
hanno vissuto la reclusione forzata della prima onda come un sollievo. Il distanziamento sociale e il confinamento non
solo li proteggeva dal rischio del contagio ma, soprattutto, dal punto di vista
psichico, li sollevava dal peso di stare nel mondo, della competizione, del confronto
con gli altri, della relazione. Perdere la possibilità delle relazioni non è
stato per tutti una privazione. Per diversi è stata, almeno inizialmente, una
liberazione, una benvenuta disintossicazione psichica. Ma questo effetto non è durato
molto. Lo strano benessere del sentirsi tagliati
fuori dal mondo ha lasciato il posto ad una profonda angoscia depressiva, individuale
e collettiva. Ci siamo chiesti e
continuiamo a chiederci se avremo ancora la possibilità di incontrare il mondo
come lo conoscevamo prima. Il rischio che
abbiamo avvertito e ancora avvertiamo è quello di perdere il mondo come lo
abbiamo conosciuto e amato. È quello che si rivela in modo eclatante nel
delirio psicotico della fine del mondo. Questo delirio si è presentato
paradossalmente come reale. (…). Ma questa
profonda angoscia depressiva ha generato altri disagi che miravano a compensare
il vuoto aperto dalla mancanza delle relazioni: abusi di alcool, di cibo, di
psicofarmaci, somatizzazioni, impulsi aggressivi e atti autolesivi. Lo sfondo
di tutti questi sintomi è l’incertezza sul futuro. (…). Senza la tecnologia la pandemia
avrebbe davvero demolito ogni forma di relazione umana. È grazie alla tecnologia, la cui essenza, secondo
Heidegger, ridurrebbe il mondo a mera risorsa strumentale da sfruttare, che, paradossalmente,
siamo potuti restare umani. È avvenuto a scuola con la Dad, nelle psicoterapie
con le sedute a distanza, ma anche con lo smart working e, più in generale, nella
possibilità che la tecnologia ha offerto a tutti noi di collegarci permettendoci
di custodire e anche di potenziare le nostre relazioni affettive e
professionali. Poi la prima onda ha perso la sua forza, la curva, con
l’avvicinarsi dell’estate, si è appiattita. Pensavamo di avercela fatta; la nostra
vita riprendeva le sue abitudini dimenticando di preservare atteggiamenti di
prudenza. Era stato solo un incubo dal quale eravamo usciti ammaccati ma in
grado di sopravvivere. L’estate ha coinciso con l’illusione di ritornare alla
vita. Per questa ragione la seconda onda scatena non solamente ancora morte e
diffusione della malattia, ma anche il lutto atroce di questa illusione. È
l’angoscia della recidiva. La guarigione non può essere intesa come una
emancipazione senza resti dalla malattia. Si affaccia il tema di una convivenza
inevitabile con il virus che disgrega le fantasie che volevano opporre alla
fase uno (quella della malattia) la fase due (quella della ripresa). La
malattia si è rivelata più ostinata e meglio organizzata dei nostri sforzi
sanitari e terapeutici. In questo tempo di grande crisi emergono fatalmente nuove
perturbazioni psichiche. Innanzitutto il sentimento depressivo si accentua. Doppia
caduta: disillusione della guarigione e, nuovamente, perdita di futuro. La sofferenza
dei pazienti diviene ancora più insopportabile. La domanda di presenza è
avvertita come una necessità per non sentirsi soli ed essere lasciati cadere.
La convivenza col virus cancella l’idea di un periodo di restrizioni della
libertà necessario alla ripresa della vita rendendo queste restrizioni la nuova
forma che ha assunto la nostra vita. Chi lo avrebbe mai potuto pensare
all’inizio? Per questo i sintomi depressivi, nella loro gamma variegata, sono
aumentati. Maggiore stanchezza, maggiore sfiducia e minore capacità reattiva
costituiscono lo sfondo sul quale appaiono passaggi all’atto suicidari, agiti
violenti, fobie sociali, sentimento diffuso di superfluità. Nei nostri stessi
figli la chiusura necessariamente prolungata della scuola ha fatto venire meno
quasi un’appendice fondamentale dei loro corpi. La scuola non è infatti solo il
luogo dove si trasmettono delle nozioni, ma una comunità nella quale i nostri
figli sono immersi. Avere perduto questo mondo ha generato vissuti di chiusura,
di tristezza, di passività, di abulia, di resa. Senza il bisogno di etichettare
questa generazione come "generazione covid", offrendo ad essa il nefasto
alibi della vittimizzazione, (…), non si può certo ignorare il loro disagio. Ma
anche le stesse famiglie hanno vissuto l’alterazione profonda della loro vita
ordinaria. Difendere i nostri anziani ha comportato l’interruzione di relazione
affettive fondamentali. Nel cuore stesso della famiglia si è dovuto praticare
un distanziamento contronatura. La domanda di aiuto psicologico si è ormai
diffusa a macchia d’olio anche tra il personale sanitario. Offrire l’ascolto
alla parola di chi vive un’angoscia che toglie il futuro non può essere
considerato un fattore secondario nella gestione della crisi. La perdita del
lavoro e della propria stabilità economica e sociale ha significato per molti
sentirsi abbandonati dalle istituzioni. Bisogna che questo ascolto
dell’angoscia non sia lasciato, dunque, solo agli psicoterapeuti ma
caratterizzi anche una nuova postura delle nostre istituzioni.
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