A lato. "Little town" (2020), penna ed acquerello di Anna Fiore.
Ha scritto Wlodek Goldkorn in “Potere politico” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 21 di marzo 2021: Anni fa, Zygmunt Bauman, amava rimarcare quanto i politici fossero in grado di fare «soltanto promesse che sapevano di non poter mantenere». Intendeva dire che la globalizzazione aveva reso poco rilevante la politica appunto, a favore di altri poteri, meno trasparenti, sottratti a ogni controllo democratico, più arbitrari quindi e difficilmente intellegibili. Le vere decisioni avvenivano altrove, in luoghi difficilmente definibili come il mercato, le borse, la finanza. Insomma, la globalizzazione (scambiata spesso dalla generazione del Sessantotto per il compimento del sogno internazionalista) avrebbe avuto come suo effetto collaterale e pericoloso il successo della retorica populista e delle nostalgie di stampo nazionalista e identitario, come risposta - sbagliata - allo smarrimento delle persone e dell’opinione pubblica dovuti anche all’impotenza dei politici. Ora, il potere si manifesta, in genere, non nella presenza dei capi in talk show in tv, quanto nella capacità di decidere. Decidere per indicare i traguardi da raggiungere a medio e lungo termine. E nel saper organizzare un’agenda, subordinata a una visione strategica. Ecco, la pandemia ha reso palpabile quanto sia ormai a rischio l’intero ecosistema del pianeta. Per questo, perfino per «gli spiriti animali» del capitalismo (parafrasando Keynes) è evidente la necessità di un potere politico in grado di tentare e indirizzare i processi della globalizzazione, la natura dei mercati e via elencando. In parole povere: dalla crisi non si esce come se fosse stata una spiacevole parentesi della storia. L’esempio viene dal paese guida dell’Occidente, gli Stati Uniti. Joe Biden, in tutto quello che sta facendo, sta restaurando la centralità della politica, del potere politico. Stessa operazione è in atto in Italia, con Mario Draghi alla presidenza del Consiglio e con Enrico Letta, che da segretario del Pd parla di politica e di potere, intesi come progetto di un futuro e non come tattica elettorale. Semplicemente. Tratto da "Attenti il populismo non è morto", intervista di Federico Rampini all'economista Dani Rodrik pubblicata sul quotidiano “la Repubbòica” del 14 di febbraio 2021: «Donald Trump ha perso ma il trumpismo non è scomparso. Le sue radici sono nell’impoverimento di tanti lavoratori, negli errori compiuti dalla sinistra che hanno accentuato la polarizzazione. Se scompare il ceto medio, viene meno una base della democrazia». (…).
Trump non è più alla Casa Bianca ma le cause strutturali del trumpismo, sia economiche che culturali, sono ancora in mezzo a noi? Quali considera più importanti: l’ideologia o le condizioni materiali? «C’è un legame fra i due aspetti e bisogna partire dagli shock economici tremendi degli ultimi decenni. Lo shock della competizione cinese. Lo shock dell’austerity europea. Lo shock della crisi finanziaria scoppiata in America nel 2008. La politica identitaria si nutre su questo terreno».
Pandemia e lockdown sembrano avere esasperato la polarizzazione di cui lei parla. «Sta peggiorando. Da un lato abbiamo una proliferazione di servizi precari e pericolosi come i “personal shopper” che fanno la spesa per te e la consegna a domicilio. D’altra parte ci sono professioni intellettuali che hanno continuato a operare in smartworking e non si sono impoverite».
Come si può salvare la “middle class”, questa categoria sociale che qui negli Stati Uniti ha sempre incluso nel ceto medio gli operai sindacalizzati e ben pagati della grande industria, una specie minacciata, che ha tentato di difendersi votando per Trump? Nella sua conferenza al Collegio Carlo Alberto di Torino lei ha fatto una distinzione fra due risposte, due modelli alternativi: la prima, puntare sul welfare, non la convince. «Il modello tradizionale delle socialdemocrazie era il primo, basato sul welfare in tutte le sue forme: investimenti nell’istruzione pubblica, una tassazione progressiva per redistribuire il reddito, aiuti e protezioni di vario tipo a chi perdeva il posto di lavoro, la cosiddetta rete di sicurezza. Oggi questo modello tradizionale del welfare non offre più la risposta adeguata, per diverse ragioni. Per esempio, l’investimento nell’istruzione non protegge abbastanza dall’evoluzione tecnologica, l’innovazione è sempre più rapida e spiazza i sistemi educativi».
L’opzione alternativa che lei indica, quella di puntare sulla “buona occupazione”, in che cosa consiste? «Richiede una politica più interventista, che persegua l’obiettivo di creare direttamente posti di lavoro di qualità. È quella che un tempo si definiva politica industriale, ma che adesso deve includere anche i servizi. Se lo Stato deve spendere risorse in sussidi, che finanzi i posti di lavoro, non l’investitore. Significa anche costruire una formazione professionale più connessa ai bisogni delle imprese».
Se si escludono i paesi asiatici — dalla Cina a Singapore, da Taiwan alla Corea — che la praticano tuttora, in Occidente la politica industriale in senso esplicito fu abbandonata dagli anni Ottanta. Da dove ripartire? «Bisogna ripensare tutta la nostra politica dell’innovazione. Gli Stati hanno un’influenza enorme. Possono decidere di spostare risorse dalla ricerca militare all’ambiente, alla lotta contro la crisi climatica. L’innovazione digitale, l’intelligenza artificiale, devono essere finalizzate alla creazione di lavoro umano. Ci vuole molto più interventismo da parte dei governi. E poi dobbiamo decidere quale tipo di globalizzazione vogliamo».
Ecco un terreno sul quale il passaggio da Trump a Biden non sarà probabilmente all’insegna del rovesciamento. Buy American, compra americano, lo slogan che Biden per adesso applica solo alle commesse pubbliche, può anticipare una versione di sinistra del protezionismo, come il dazio carbonico sulle importazioni da paesi inquinanti di cui si discute in Europa. «Le nuove politiche economiche finalizzate a creare buona occupazione possono essere vanificate da politiche commerciali sbagliate. Abbiamo visto come aprire le frontiere alla concorrenza da paesi che hanno meno diritti ha peggiorato la situazione in casa nostra. Bisogna aggiungere anche delle politiche fiscali che spostino il carico fiscale sulle multinazionali, e sui ricchi».
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