Sopra. Aya Ashour, anni 24.
“Lascio la mia terra per esserne il futuro”, corrispondenza di Aya Ashour dalla terra di Palestina: Dopo un secondo ritardo nella mia partenza da Gaza, coordinata dal Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme, sono finalmente riuscita – al terzo tentativo – a lasciare la Striscia di Gaza. Il modo in cui è avvenuto, e le emozioni che mi ha portato, sono al di là di qualsiasi cosa io possa descrivere. Dopo un anno intero di sforzi instancabili da parte dell’Università per Stranieri di Siena per permettermi di partire dalla Striscia in modo che potessi continuare la mia formazione come ricercatore ospite – con il coordinamento del Ministero degli Affari Esteri italiano e del Consolato, appunto – posso annunciare di aver lasciato Gaza ieri alle quattro del mattino da Deir al Balah, passando per il valico di Kerem Shalom e poi per il Jordan Bridge. Mi trovo ad Amman mentre scrivo questo articolo, l’ennesimo chiesto da Giampiero Calapà per il Fatto. E mentre scrivo, sono seduta sotto una lampada, l’elettricità funziona qui, con l’aria fresca e cibo e bevande a portata di mano. Ma la mia famiglia, i miei cari e oltre due milioni di gazawi sono ancora lì, affamati, sfollati, senza casa, sotto le bombe e i razzi, alla mercé di Israele e del mondo. La sera prima di partire, ho passato la giornata a guardare i volti della mia famiglia tra le lacrime. Piangevamo tutti, impotenti, e i nostri occhi parlavano una lingua muta: “Non voglio lasciare questa terra. Voglio restare con la mia famiglia. La mia famiglia vuole che io rimanga con loro”. Ma la verità è che non ci è concesso il lusso di poter scegliere. Il mio obiettivo, e quello della mia famiglia per me, è continuare a studiare, inseguire il mio sogno e rappresentare il mio Paese. L’ultima notte a Gaza ho cercato di dormire, ma non ci sono riuscita. Sono rimasta sdraiata per quattro ore e poi mi sono svegliata alle 2 del mattino, cercando il mio smartphone. Era ancora presto: l’orario di partenza era fissato alle 3,45. Ho iniziato a guardare i volti addormentati delle mie sorelle accanto a me: Noor, Jana e Rola. Mi è venuto da piangere, di nuovo, ma il mio cuore si è come bloccato in quel momento. Mia madre si è svegliata dopo di me. Abbiamo iniziato a prepararci e lei si è vestita per accompagnarmi, insieme a mia sorella Noor e ai miei fratelli Ahmad e Mohammad, al punto di incontro. Poi è arrivato il momento di dire addio a Rola, la mia sorellina di quattro anni. Mi è sembrato che la mia anima venisse estratta dal mio corpo. Come posso lasciare questa bambina, che mi sembrava più una figlia che una sorella? Poi ho salutato Jana, mio padre, che cercava di trattenere le lacrime, e mio fratello Moath. Mi sono avviata verso la porta, stringendo forte Rola per quella che temo possa essere l’ultima volta. Mi sono allontanata in lacrime, con mia madre che piangeva accanto a me. Abbiamo camminato per due chilometri, a piedi, sotto il suono dei droni, circondati da cani randagi e dalla paura di essere seguiti da quelle bestie. Ogni momento era pieno di terrore: attraversare posti di blocco, soldati e l’ignoto. Quando abbiamo raggiunto il punto d’incontro, il mondo ha cominciato a crollarmi intorno. Non riuscivo a respirare. Mi sono stretta a mia sorella Noor e a mia madre e abbiamo pianto insieme. Il momento della separazione, i minuti prima di salire sull’autobus, è stato insopportabile. Nulla può descrivere quella sensazione, se non affermare che il mio cuore, già spezzato, è morto di nuovo. Ho viaggiato in autobus alle prime luci dell’alba, attraversando zone difficili e pericolose, dove la presenza militare israeliana è massiccia: Rafah e Khan Younis. Ho visto distruzione ovunque: carri armati, bulldozer e veicoli blindati. I droni volavano sopra di noi quando abbiamo raggiunto il valico di Kerem Shalom. Abbiamo attraversato diversi altri posti di blocco israeliani, poi siamo stati accolti dal personale del Consolato italiano che ci ha offerto cibo e acqua. Non ci è stato permesso di portare nulla da Gaza – né vestiti, né cibo, né acqua – solo i documenti, il passaporto, lo smartphone e un po’ di denaro. Da Kerem Shalom, abbiamo viaggiato in autobus fino al confine con la Giordania, passando per Be’er Sheva, il Mar Morto e infine attraversando il Jordan Bridge. È stato un viaggio di sei ore via terra. Sul lato giordano, siamo stati accolti calorosamente da una delegazione dell’Ambasciata italiana ad Amman, dove ho ottenuto il visto. Porto già con me il peso di tutto ciò che ho lasciato: la famiglia, ancora affamata e vulnerabile; gli amici; i ricordi; la mia vita; il mio passato; la città natale; la mia infanzia; la mia gente. Sono partita senza nulla, ma sono sopravvissuta a un genocidio e a un inferno, e ora mi trovo in una situazione di sicurezza che non riesco a descrivere. È come se avessi lasciato la mia anima alle spalle e avessi ricominciato, a 24 anni, pronta per l’Italia, alla ricerca di un futuro migliore. Un futuro in cui poter raccontare le nostre storie. Un futuro in cui potrò condividere con voi la verità di un genocidio che ancora continua.
«Serve fare subito un “Erasmus per la Palestina”» di Tomaso Montanari: Tutta la comunità accademica dell’Università per Stranieri di Siena è felice per la bellissima notizia dell’avvenuta esfiltrazione da Gaza (dopo tanti tentativi) di Aya Ashour, la nostra giovane collega palestinese che i lettori del Fatto Quotidiano conoscono attraverso i suoi preziosi articoli. Ashour è stata formalmente invitata nell’aprile del 2024 come visiting researcher, per continuare a coltivare da noi il suo campo di studio, che incrocia gli studi di genere e quelli di diritto internazionale (ricordo il titolo della sua tesi: “Il ruolo delle donne nella sicurezza e nella pace, secondo la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza: la Palestina come caso di studio”), e nei prossimi giorni arriverà finalmente a Siena. Come rettore dell’Università per Stranieri di Siena, desidero ringraziare, e non formalmente, il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani e la ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini, con i quali sono stato in costante contatto diretto, e la cui decisione politica è all’origine della salvezza di Aya. Sono anche gratissimo all’Unità di crisi della Farnesina, e alle nostre rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, Gerusalemme e Amman per un lavoro silenzioso quanto straordinario. Nel disastro di relazioni internazionali ormai improntate a un uso estensivo della forza, e a un ostentato disprezzo per ogni regola e ogni diritto, la diplomazia rimane un baluardo di civiltà: e la nostra diplomazia italiana rimane, nonostante tutto, un imprescindibile punto di riferimento professionale e civile. Le condizioni estreme in cui versa Gaza, imporrebbero oggi un salto di qualità politico che permetta alla diplomazia italiana di ripetere su una scala più vasta l’operazione messa in campo per Ashour. In particolare, un accordo tra governo italiano e governo giordano potrebbe consentire di organizzare il trasferimento delle ricercatrici e dei ricercatori palestinesi imprigionati a Gaza: non certo per portare a compimento lo scolasticidio intrapreso da Israele, ma per consentire al ceto intellettuale palestinese di sopravvivere in esilio, ponendo le basi culturali per un futuro di riscatto. Su una scala ancora più ampia, è evidente che le borse messe a disposizione delle studentesse e degli studenti palestinesi per giusta iniziativa della Conferenza dei rettori sono in quantità irrisoria rispetto alla domanda (la proporzione è di una a centocinquanta): il nostro ministero per l’Università potrebbe farsi promotore di un Erasmus for Palestine che offra ai giovani di Gaza e anche della Cisgiordania un’occasione di formazione nelle nostre università italiane. Sarebbe anche un modo per affermare che non tutto è perduto della tradizione multilaterale e mediterranea della diplomazia culturale italiana. Intanto, resta la gioia per la salvezza di Aya Ashour, che abbiamo così tenacemente perseguito. Di fronte all’enormità del genocidio perpetrato a Gaza (con la complicità dei governi occidentali, che non cessano di aiutare Israele in ogni modo, compresa la fornitura di armi), la salvezza di una singola vita può sembrare una ben piccola cosa, ma siamo profondamente convinti che “chi salva una vita, salva il mondo intero” (secondo un antico detto della sapienza ebraica e di quella islamica). E una giovane vita femminile dedicata allo studio del diritto internazionale e del ruolo di pace delle donne ci appare, in questo buio sempre più fitto, come una luce profetica. Un sussurro di speranza: udibile perfino in mezzo all’immane clamore dei missili e dei carri armati.
N.d.r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati sulla stessa edizione de’ “il Fatto Quotidiano” di oggi, giovedì 26 di giugno 2025.
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