Tratto
da “La sporca guerra del petrolio”
di Massimo Giannini, pubblicato sul settimanale “A&F” del 30 di marzo 2020:
Dice il saggio: dimenticate le questioni
razziali e religiose, è il petrolio il motore di ogni conflitto. È
proprio così, come dimostrano le due Guerre del Golfo. Ma rischia di essere
vero anche oggi. Mentre i Grandi della Terra combattono la "buona
battaglia" contro il coronavirus, proprio l'oro nero ha innescato una
"sporca guerra" meno visibile ma in prospettiva altrettanto temibile.
In prima linea si fronteggiano Russia e Arabia Saudita, con danni collaterali
evidenti per gli Stati Uniti. Nelle retrovie si agitano tutti gli altri, dai
satelliti mediorientali ai Paesi occidentali. Gli esiti dello scontro avranno
un impatto sicuro sull'economia del pianeta, già sconvolta dalla pandemia del
Terzo Millennio. Perché nasce la guerra petrolifera? La "tragedia
biblica" del Covid-19, secondo l'apocalittica definizione di Mario Draghi,
ha offerto allo Zar Putin un'occasione irripetibile.
Resettare gli equilibri geo-politici del globo, approfittando dell'implosione della Cina e della dissoluzione dell'Europa, per assestare una botta micidiale all'America di Donald Trump. In che modo? Colpendo uno dei settori strategici grazie al quale gli Stati Uniti (prima della pestilenza) avevano rimesso carburante nel motore dell'industria, ridato fiato alle trombe di Wall Street e raggiunto la piena autosufficienza energetica: lo shale-oil. Cioè l'estrazione del greggio non più dalle trivellazioni classiche nei deserti o negli oceani, ma dalla frammentazione degli scisti di roccia. Com'è avvenuto l'attacco? L'escalation bellica l'ha spiegata nei giorni scorsi l'ex presidente dell'Eni Paolo Scaroni alla "Stampa". Nel mondo si consumano 100 milioni di barili al giorno. La crisi del virus ha schiantato i consumi a meno di 90 milioni. Così nella prima settimana di marzo il prezzo del greggio è crollato a poco più di 20 dollari al barile, facendo saltare il già delicato equilibrio che consentiva ai Paesi produttori di mantenere il prezzo tra i 50 e i 60 dollari. Per reggere l'urto e rialzare le quotazioni, il ministro dell'Energia saudita Abdul Aziz Bin Salman (fratello del principe ereditario) ha annunciato un taglio alla produzione di 1,5 milioni di barili al giorno per i prossini tre mesi, proponendo una mossa analoga all'Opec e alla Russia. Ma qui è scattata la "trappola del Cremlino". "Mentre noi avviamo tagli massicci alla produzione - è stato il ragionamento dei russi - gli Stati Uniti continuano a sfornare grazie al "fracking" milioni e milioni di barili al giorno, tornando ad essere il primo produttore mondiale? Non si può fare...". Così hanno lanciato l'offensiva. Invece di tagliare la produzione, hanno mantenuto i livelli attuali. E subito dopo, attraverso il colosso pubblico Rosneft, hanno annunciato l'aumento della produzione di 300 mila barili al giorno. A quel punto il prezzo è precipitato, e tanto è bastato per far perdere ai colossi dello shale-oil americano metà del loro valore di Borsa. Ma quello che nessuno aveva previsto, al tavolo del poker petrolifero globale, è che lo sceicco Bin Salman sarebbe andato a vedere il punto di Putin. Così è partito un folle gioco al rialzo tra Mosca e Riad. L'Arabia Saudita ha rilanciato, aumentando addirittura la produzione di 2 milioni di barili al giorno. "Risultato - dice ancora Scaroni - domanda che crolla, offerta che esplode e aumento esponenziale degli stoccaggi, per cui i prezzi, in assenza di un nuovo assetto, non potranno che deprimersi anche sotto la soglia attuale dei 23-25 dollari". Chi vince e chi perde, in questa assurda sfida lanciata nel momento più buio per l'economia globale? Come osservano Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su lavoce.info, "condurre una battaglia sulle quantità contro l'Arabia Saudita non è mai stata una grande idea". La dinastia saudita controlla comunque un quarto delle riserve mondiali di greggio e può vantare il minor costo di estrazione del mercato: meno di 10 dollari (contro i 25 degli americani e i 30 dei russi). È dunque probabile che possa resistere più a lungo dei suoi competitor. Ma sono ipotesi, che come ricorda Caleb Wulf su "il Sussudiario.net" vanno verificate sulla base di due parametri: "Il primo è il rapporto puramente industriale tra costo di estrazione e vendita, il secondo tra prezzo del petrolio e finanze dello Stato produttore". Tenendo conto di questi due elementi, la cosa più probabile è che questa dissennata disfida petrolifera alla fine sia un gioco a somma zero. Con un prezzo al barile oggi compreso tra i 20 e i 25 dollari non vince nessuno, dato che il "breakeven price" al barile è di 80 dollari per l'Arabia saudita, 33 dollari per l'America, 40 dollari per la Russia. Fate voi i calcoli di quanto ci stanno rimettendo tutti quanti. Certo, per i nemici dell'Occidente far fallire il Big Oil Usa fa gola, considerato che "mostri" come ExxonMobil e le sue sorelle sono tuttora indebitate per oltre 100 miliardi di dollari, e se queste quotazioni restassero a lungo ai livelli attuali potrebbero portare i libri in Tribunale. Ma vale davvero la pena di rischiare l'osso del collo? Gli effetti a catena sarebbero imprevedibili, non solo sui "congiurati" anti-americani, ma anche sul resto dell'orbe terracqueo (basti pensare alle economie dell'emisfero Sud-Est, dall'Iran all'Iraq, dalla Siria al Libano). Persino la piccola Italietta ha poco da guadagnare da questo Vietnam: siamo importatori netti di energia, e quindi risparmieremmo sulla bolletta energetica, ma se il prezzo da pagare per questi risparmi è la Lunga Depressione ce ne faremmo assai poco. Se il quadro non cambia, Citigroup stima per quest'anno un surplus di 1,27-2,73 miliardi di barili, con una contrazione della domanda mai vista prima, pari a 12-18 milioni di barili al giorno. Jefferies, in uno studio intitolato "Corsa verso il fondo", osserva che "Covid 19 probabilmente sarà il maggiore shock della domanda di prodotti raffinati mai verificatosi prima". Alla faccia del saggio, e a dispetto di questi irresponsabili Padroni della Terra, urge al più presto una Pax Petrolifera.
Resettare gli equilibri geo-politici del globo, approfittando dell'implosione della Cina e della dissoluzione dell'Europa, per assestare una botta micidiale all'America di Donald Trump. In che modo? Colpendo uno dei settori strategici grazie al quale gli Stati Uniti (prima della pestilenza) avevano rimesso carburante nel motore dell'industria, ridato fiato alle trombe di Wall Street e raggiunto la piena autosufficienza energetica: lo shale-oil. Cioè l'estrazione del greggio non più dalle trivellazioni classiche nei deserti o negli oceani, ma dalla frammentazione degli scisti di roccia. Com'è avvenuto l'attacco? L'escalation bellica l'ha spiegata nei giorni scorsi l'ex presidente dell'Eni Paolo Scaroni alla "Stampa". Nel mondo si consumano 100 milioni di barili al giorno. La crisi del virus ha schiantato i consumi a meno di 90 milioni. Così nella prima settimana di marzo il prezzo del greggio è crollato a poco più di 20 dollari al barile, facendo saltare il già delicato equilibrio che consentiva ai Paesi produttori di mantenere il prezzo tra i 50 e i 60 dollari. Per reggere l'urto e rialzare le quotazioni, il ministro dell'Energia saudita Abdul Aziz Bin Salman (fratello del principe ereditario) ha annunciato un taglio alla produzione di 1,5 milioni di barili al giorno per i prossini tre mesi, proponendo una mossa analoga all'Opec e alla Russia. Ma qui è scattata la "trappola del Cremlino". "Mentre noi avviamo tagli massicci alla produzione - è stato il ragionamento dei russi - gli Stati Uniti continuano a sfornare grazie al "fracking" milioni e milioni di barili al giorno, tornando ad essere il primo produttore mondiale? Non si può fare...". Così hanno lanciato l'offensiva. Invece di tagliare la produzione, hanno mantenuto i livelli attuali. E subito dopo, attraverso il colosso pubblico Rosneft, hanno annunciato l'aumento della produzione di 300 mila barili al giorno. A quel punto il prezzo è precipitato, e tanto è bastato per far perdere ai colossi dello shale-oil americano metà del loro valore di Borsa. Ma quello che nessuno aveva previsto, al tavolo del poker petrolifero globale, è che lo sceicco Bin Salman sarebbe andato a vedere il punto di Putin. Così è partito un folle gioco al rialzo tra Mosca e Riad. L'Arabia Saudita ha rilanciato, aumentando addirittura la produzione di 2 milioni di barili al giorno. "Risultato - dice ancora Scaroni - domanda che crolla, offerta che esplode e aumento esponenziale degli stoccaggi, per cui i prezzi, in assenza di un nuovo assetto, non potranno che deprimersi anche sotto la soglia attuale dei 23-25 dollari". Chi vince e chi perde, in questa assurda sfida lanciata nel momento più buio per l'economia globale? Come osservano Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su lavoce.info, "condurre una battaglia sulle quantità contro l'Arabia Saudita non è mai stata una grande idea". La dinastia saudita controlla comunque un quarto delle riserve mondiali di greggio e può vantare il minor costo di estrazione del mercato: meno di 10 dollari (contro i 25 degli americani e i 30 dei russi). È dunque probabile che possa resistere più a lungo dei suoi competitor. Ma sono ipotesi, che come ricorda Caleb Wulf su "il Sussudiario.net" vanno verificate sulla base di due parametri: "Il primo è il rapporto puramente industriale tra costo di estrazione e vendita, il secondo tra prezzo del petrolio e finanze dello Stato produttore". Tenendo conto di questi due elementi, la cosa più probabile è che questa dissennata disfida petrolifera alla fine sia un gioco a somma zero. Con un prezzo al barile oggi compreso tra i 20 e i 25 dollari non vince nessuno, dato che il "breakeven price" al barile è di 80 dollari per l'Arabia saudita, 33 dollari per l'America, 40 dollari per la Russia. Fate voi i calcoli di quanto ci stanno rimettendo tutti quanti. Certo, per i nemici dell'Occidente far fallire il Big Oil Usa fa gola, considerato che "mostri" come ExxonMobil e le sue sorelle sono tuttora indebitate per oltre 100 miliardi di dollari, e se queste quotazioni restassero a lungo ai livelli attuali potrebbero portare i libri in Tribunale. Ma vale davvero la pena di rischiare l'osso del collo? Gli effetti a catena sarebbero imprevedibili, non solo sui "congiurati" anti-americani, ma anche sul resto dell'orbe terracqueo (basti pensare alle economie dell'emisfero Sud-Est, dall'Iran all'Iraq, dalla Siria al Libano). Persino la piccola Italietta ha poco da guadagnare da questo Vietnam: siamo importatori netti di energia, e quindi risparmieremmo sulla bolletta energetica, ma se il prezzo da pagare per questi risparmi è la Lunga Depressione ce ne faremmo assai poco. Se il quadro non cambia, Citigroup stima per quest'anno un surplus di 1,27-2,73 miliardi di barili, con una contrazione della domanda mai vista prima, pari a 12-18 milioni di barili al giorno. Jefferies, in uno studio intitolato "Corsa verso il fondo", osserva che "Covid 19 probabilmente sarà il maggiore shock della domanda di prodotti raffinati mai verificatosi prima". Alla faccia del saggio, e a dispetto di questi irresponsabili Padroni della Terra, urge al più presto una Pax Petrolifera.
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