“Cosedaleggere” al tempo del “coronavirus” tratte da
“Adesso il tetto del condominio è il mio
veliero” di Paolo Rumiz, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 9 di
aprile 2020: (…). È stata una notte pesante, piena di pensieri. Avevo tirato tardi
via skype con un economista visionario e un professore di lettere dalla barba
da rabbino discutendo dei rischi spaventosi non di una recessione, ma di un
blocco totale dell'economia e conseguente crollo del welfare. Un disastro di
proporzioni bibliche, che potrebbe spazzar via la democrazia europea nel giro
di un mese. E così, fino a mezzanotte, siamo stati lì a parlare di scenari
sudamericani a fronte di una classe politica di esordienti, che sembra non
rendersi conto della situazione. E non vede che il vero malato non è il singolo
colpito dal virus ma l'interezza del corpo sociale. La nazione. Così, addio
sonno. Dopo notti simili, hai bisogno di luce per mettere la palla al centro. E
così, quando dal tuo inferno di pensieri, insonnolito e misero, ancora
rintronato dal bollettino sul numero dei decessi, imbocchi la tromba delle
scale deserte, ecco emergere da memorie scolastiche, senza che tu l'abbia
chiamata, l'ombra di un Alighieri che sale al monte del Purgatorio. Allora ti
fermi un attimo su un pianerottolo, rifletti, e ti accorgi che non hai capito
niente della Commedia, perché il Poeta altro non fa che cercar di uscire dalle
tenebre di se stesso. E poiché non c'è luce senza il passaggio attraverso le
tenebre, a quel punto i pensieri non si fermano più e persino l'apertura della
tua botola si carica di significati inattesi. Sono fuori, e subito le paure si
dissolvono. Vento regolare a 20 nodi da Nord-nordest, pressione 1018 millibar.
Un buon marinaio potrebbe raggiungere la costa greca in quattro giorni. Nel
golfo deserto, un'unica vela: la mia. Va a Oriente, perché è lì che ci si
orienta. È un chiarore diffuso tra il giallo e il mandarino che cresce oltre il
monte. Ore 6.44. Il primo raggio trafigge il campanile di Contovel, sul
ciglione carsico. Mancano pochi minuti. Il silenzio è totale, la città deserta.
I gabbiani, due-trecento metri più in alto, diventano giallo-oro. Dante,
perdonaci tutti. Cos'è il Paradiso se non accontentarsi della luce e lasciarsi
alle spalle la bramosia dell'inutile? La percezione dell'essenza? Da questa
magnifica coffa sento di poter intuire l'Aleph, la totalità concentrata in un
unico punto radiante. Ma ecco il Sole. Esce come un grido. Sono le 6.58. (…). Venticinquesimo
giorno di quarantena. Mi sveglio di soprassalto. Ho sognato di aver trovato il
numero di telefono di mio padre. Un numero per l'Aldilà, ovviamente. Cerco di
ricordarlo, ma non ci riesco. Manca il prefisso. Poi mi accorgo che il vecchio
se n'è andato esattamente quarant'anni fa, ai primi di aprile. Mi ha
telegrafato il suo anniversario, il mio dolce ufficiale gentiluomo. Devo
prendere fiato, tornare sul veliero. Salgo con una copia di Moby Dick in
inglese, più taccuino e binocolo. Il sole è previsto alle 6.56. Lo aspetto,
Pasqua è vicina, è come attesa della Resurrezione. I gabbiani si sono già
levati per salutare l'attimo. E volo anch'io, volo sull'Europa come Nils
Holgersson a cavallo delle oche. Vedo un camionista bloccato al confine
ungherese e un medico sfinito nell'inferno di Niguarda a Milano. Le orazioni
dei monaci in un'abbazia irlandese e un ladro che scassina un negozio alla
periferia di Madrid. Un bimbo in oncologia all'ospedale di Créteil a Parigi,
che saluta il papà attraverso un vetro, e una prova d'orchestra online tra i
Berliner Filarmoniker. Il custode di un faro solo nella tempesta, e le ombre
spaurite di anziani in una casa di riposo. Ricordi? Visioni? Non so. Da qualche
parte, forse in Polonia, c'è anche un vescovo che si fa servire la colazione
dalla perpetua e un nonno che sul suo abbaino improvvisa un teatrino di
marionette per bimbi affacciati alla casa di fronte. Vedo le centrali d'ascolto
dei servizi segreti moscoviti e i corpi dei naufragati che fluttuano nei
fondali dello Jonio. Più lontano, una donna sola partorisce in una casa di
Brooklyn e un maschietto delira di febbre in un villaggio somalo. Uno dei
quindicimila bambini che moriranno oggi, come ogni santissimo giorno sulla
Terra, di miseria e senza far notizia, mentre qui notiziari martellanti ci
convincono che Coronavirus è l'unico male del mondo. (…). Mentre aspettavo
l'alba, una linea anomala, come di risacca, si allungava sul mare. Ho preso il
binocolo. Tonni! Erano anni che non se ne vedevano. Cielo d'alta montagna, con
l'alba da un lato e dall'altro la Luna piena che scendeva come un contrappeso,
e tu lì in mezzo, a fare da perno al bilanciere. Percezione assoluta di
centralità, come in un faro sperduto in mare. E ho volato di nuovo sui tetti,
verso altri mondi. Era la riconquista del tempo. Per la prima volta ne bevevo a
sorsate, senza limiti. Ecco perché non soffrivo di assenza di spazio. Era il
"qui ed ora" perduto, che tornava. Allora ho sentito una voce
femminile gridarmi uno squillante "Buongiorno!". Era una tipa che
salutava il marinaio dalla casa di fronte, a trenta metri di distanza. Lì mi
sono accorto di essere sfinito. In un attimo m'era parso di avere sfiorato
l'essenza del dolore e della bellezza della vita, la visione della catastrofe e
allo stesso tempo del potenziale di solidarietà che può ancora evitarla.
Autosuggestione? E allora? Sia benedetta l'autosuggestione se serve a farti
capire che troppe notizie in tempo reale sono in realtà l'assassinio del tempo.
Meglio sprofondare in sé stessi. Diventare sommozzatori. Lasciarsi andare, come
in un amplesso. È allora che il tuo sguardo diventa aeronautico. (…).
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