Tratto
da “Avanti ragazzi, ora e sempre
Resistenza”, intervista di Simonetta Fiori a Marco Revelli pubblicata sul
quotidiano “la Repubblica” del 22 di aprile 2020: “Sarà il primo 25 aprile senza
piazza fisica. Ma la virtuale è destinata a segnare un importante passaggio di
testimone: quello a una nuova generazione di liberi, un nuovo popolo di ragazzi
e ragazze chiamati a coltivare questa eredità. E allora non lo ricorderemo solo
come il 25 aprile della pandemia, ma come una data di ricostruzione”. (…).
Perché il prossimo 25 aprile riveste una particolare importanza? “Il necessario trasloco nella piazza digitale segna anche una sorta di investitura dei più giovani: tocca a loro tenere le fila del discorso, anche perché i testimoni vengono a mancare. E la pandemia sta decimando la generazione che ha vissuto la Liberazione, quella che ne conserva la memoria”.
Perché il prossimo 25 aprile riveste una particolare importanza? “Il necessario trasloco nella piazza digitale segna anche una sorta di investitura dei più giovani: tocca a loro tenere le fila del discorso, anche perché i testimoni vengono a mancare. E la pandemia sta decimando la generazione che ha vissuto la Liberazione, quella che ne conserva la memoria”.
Non vede come un limite la mancanza di una piazza
fisica? “Forse arrivo a dire una bestialità, ma la piazza virtuale può portare
molti vantaggi. Intanto è importante che ci si sia inventati un modo per
esserci: il 25 aprile resta una festa collettiva. È importante anche la formula
scelta per questo appuntamento virtuale: “#io resto libero” nonostante sia
chiuso a casa, voglio dirlo al mondo e voglio difendere la mia libertà. I
nostri padri e nonni non avrebbero mai immaginato una piazza virtuale. Ed è
giusto che la Rete restituisca la voce del nuovo popolo di liberi, nella
consapevolezza che quelle conquiste non sono irreversibili”.
Il confinamento a cui siamo costretti ci consente di
capire più a fondo il valore della libertà e anche la sua fragilità. “C’è una
frase molto efficace di Piero Calamandrei, nel discorso agli studenti milanesi
nel 1955: la libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale quando
comincia a mancare. Noi ne abbiamo fatto esperienza, nella limitazione dei
movimenti e delle relazioni sociali. Con una differenza fondamentale rispetto
al passato: la nostra è un’autolimitazione, una forma di altruismo per salvare
gli altri e noi stessi da un rischio di morte. Ma certo è valso come una sorta
di esperimento sociale che ci ha reso percepibile per salvare gli altri e noi
stessi da un rischio di morte. Ma certo è valso come una sorta di esperimento
sociale che ci ha reso percepibile fisicamente la sofferenza procurata dalla
libertà negata. È giusto che ci portiamo dietro la voglia di difenderla”.
Per i nostri millennials la pandemia ha rappresentato
anche un altro passaggio: l’immersione nella Storia, la storia grande, in cui
ancora non si erano imbattuti. “È una generazione che ha vissuto un tempo
relativamente piatto, privo di quelle rocce di inciampo che ti fanno ricordare
le fratture temporali. Il virus ha rappresentato una cesura storica, tra un
prima e un dopo. Per questo ci costringerà a un bilancio, a misurare ciò che
continua e cosa cambia tra il “prima” e il “dopo”. Cosa deve cambiare. Anche la
Liberazione fu una data periodizzante, da cui sarebbe uscita una nuova Italia.
Oggi dobbiamo tutti domandarci qual è la nuova Italia che vogliamo”.
La festa di Liberazione può essere una bussola in
questo senso? “È una data costituente. Con il 25 aprile non festeggiamo una
vittoria come le altre, ma una vittoria più importante di quella ottenuta a
Vittorio Veneto o a Curtatone e Montanara. È stata la vittoria degli italiani
che volevano rimanere liberi contro chi li voleva tenere in oppressione. È
stata la vittoria non solo contro un esercito invasore, ma anche contro
un’ideologia di morte. La vittoria di una visione del mondo fondata
sull’eguaglianza contro una visione fondata sulla divisione razziale, sulla
violenza, sulla prevaricazione dei più forti sugli schiavi. Oggi le ideologie
di morte continuano a circolare”.
Questo 25 aprile è il primo che arriva dopo una
stagione di odio, dopo le scritte naziste sulle case degli ex deportati e dopo
che una testimone di Auschwitz è stata messa sotto protezione, caso unico al
mondo. “Veniamo da un periodo di odio e rancore, durante il quale sono stati
riproposti con aggressività simboli e figure condannati dalla storia. In questo
senso la malattia è arrivata in una situazione in cui già aleggiavano miasmi
malsani. Come se gli eredi del cuore nero del Novecento volessero ricordarci:
siamo di nuovo qui, non vi siete liberati di noi. È la ragione per cui avremmo
dovuto riempire le piazze come sardine. Ma nell’impossibilità di farlo, ci
viene in soccorso la piazza virtuale, che resta la risposta migliore anche per
il respiro ampio, al di là delle divisioni”.
A quali divisioni si riferisce? “Ho sempre vissuto con
fastidio e disagio le contestazioni alla Brigata ebraica durante la sfilata
milanese. Anche a Roma non è stata trovata l’unità. Io sono molto critico nei
confronti della politica di Israele, ma questo non cambia di un millimetro che
cosa abbia significato l’Olocausto per gli ebrei e quale sia stato il loro
contributo alla Liberazione. La piazza digitale potrebbe avere la capacità di
depurare l’atmosfera da quegli umori negativi che attraversano anche la
galassia antifascista”.
Prima lei diceva che il 25 aprile è una data
costituente, ma in Italia non ha mai avuto la monumentalità di cui godono il 14
luglio in Francia o il 4 luglio in America. Nella lunga stagione berlusconiana,
Dell’Utri propose di abolirla. Lo scorso anno l’allora ministro degli Interni
Salvini lo definì un derby tra rossi e neri. E ora Fratelli d’Italia propone di
dedicarlo alle vittime del Covid. C’è una relazione tra questa memoria
irrequieta e il filo nero che attraversa la storia italiana? “Questo è sicuro.
Non mi stupisce che provi irritazione verso il 25 aprile chi continua a
riconoscersi nell’Italia allora sconfitta. Ma la storia va rispettata. Dietro
questa voglia di cancellare il carattere storico del 25 aprile c’è fastidio per
la storia. E il desiderio di un Paese senza memoria”.
Cosa ricorda dei 25 aprile vissuti con suo padre Nuto
Revelli? “Grandi e animati pranzi con i partigiani in Valle Stura, dov’era nata
la banda “Italia Libera” di Giustizia e Libertà, e nelle valli vicine dove
avevano combattuto. Ricordo l’allegria, i racconti drammatici e comici, e tra
loro un sentimento assoluto di amicizia che ho sempre invidiato: al di là delle
scelte politiche diverse, erano profondamente legati dall’aver vissuto insieme
il momento più alto della loro esistenza. Si portavano dietro la giustizia e la
libertà, cosa che non è avvenuto per la mia generazione. E ogni volta era come
se rinnovassero un patto: continuare a essere partigiani sempre, in modo via
via diverso, ma comunque fedeli a un mandato: bisognava tenere alta la
guardia”.
E oggi il patto quale deve essere? “Realizzare la
Costituzione, anche alla luce del rovesciamento reso manifesto dalla pandemia.
Esiste un’Italia di sotto che è stata chiamata a tenere in piedi un paese: i
lavoratori manuali, gli autisti, i netturbini, i rider, i precari, i figli di
un dio minore che ci hanno permesso di sopravvivere al sicuro delle nostre
case. Sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari mandati sul fronte
come carne da cannone. Anche la Resistenza fu fatta
dall’Italia di sotto, dagli operai, dai contadini, dagli studenti, anche da
una parte delle classi dirigenti, ma solo da una piccola parte perché il resto
non diede un grande contributo. Ecco ora il rischio è che, passata l’emergenza,
si torni agli equilibri di prima: in alto i soliti, in basso gli eroi di oggi
che rischiano di diventare eroi d’un solo giorno. Bisogna impedire che questo
accada”.
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