Tratto da “Ragazzi, unitevi per salvare la
nostra Europa” di Paolo
Rumiz, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di aprile 2020: (…). Sì,
stanotte il sismografo ballava più del solito. Sentiva arrivare un’onda d’urto
enorme, qualcosa che andava oltre Covid, i bollettini della Protezione civile e
la paura animale di restare senza cibo o ammalarsi. Era l’Europa che si
sgretolava, a velocità impressionante, come la torre di Babele. I ricchi del
Nord che abbandonavano al loro destino il Sud, tagliavano fuori il
Mediterraneo. La filiera alimentare che si interrompeva. Cina, America e Russia
che si fregavano le mani per il dissolversi del più grande mercato del mondo.
Il trionfo del Grande Fratello sulla solidarietà. Vedevo masse ondeggiare,
prive di punti di riferimento, in balia di fake news propalate da tv a caccia
di audience, e pronte ad affidarsi a uomini della provvidenza o al dominio di
remote intelligenze artificiali. Vedevo Paesi interi distrutti moralmente ed
eticamente, resi afoni dalla dittatura del consumo.
La fine di un magnifico sogno, di un’alleanza che aveva tentato di costruire la convivenza sulle regole e la democrazia, non sulla potenza prevaricatrice. Mi ero illuso che i fascisti fossero spariti. In fondo Covid aveva sbugiardato le loro frontiere, come le aveva ignorate il recente sterminio dei boschi alpini causa tornado. Dimostrava che i migranti non erano solo gli altri e che l’impoverimento ci trasformava tutti in potenziali migranti. La porta che noi sbattevamo in faccia ad altri ora era sbattuta in faccia a noi. Anche gli amiconi di Salvini ce la sbattevano: anche Orbán che, da bravo ex comunista, si era già rimesso nelle mani del Cremlino. Perché la conseguenza del sovranismo è esattamente il suo contrario, la perdita della sovranità. Con l’Italia ridotta a un Paese dell’America latina col suo Pinochet di turno, o, nel migliore dei casi, a un parco dei divertimenti per turisti cinesi. La Jugoslavia insegna, con le visite guidate alle macerie di un mondo che fu. Tutto smentiva i sovranisti e io mi illudevo che fossero rimasti ammutoliti nelle loro tane. La loro sembrava una sconfitta totale. Invece no. Essi tacevano e tacciono semplicemente perché aspettano il momento. Si preparano senza fretta, come gli avvoltoi attorno a una pecora morente. Aspettano, perché in queste ore siamo proprio noi, uomini ancora liberi, a fare il lavoro per loro, a spianargli non una strada, ma un’autostrada per il potere. Noi europei, gli stessi che fino a ieri erano educatamente seduti in un emiciclo a Strasburgo. Abbiamo alzato muri e reticolati e, dopo aver distrutto l’educazione civica e il senso dello Stato, abbiamo instaurato quasi ovunque stati di polizia, senza che si fosse levata quasi nessuna voce di dissenso. Abbiamo lasciato fare Orbán, e ora costui, ottenuti i pieni poteri, ha inoculato il virus dell’assolutismo nel cuore di un corpo democratico. Ma il bello deve ancora arrivare, quando “loro” usciranno dalle catacombe. Non è più tempo di lambiccarsi con le percentuali di Pil. Abbiamo il dovere del pessimismo, di ipotizzare il peggiore degli scenari per preparare meglio le difese. Perché siamo già alla conta dei morti. Sarà questa conta a determinare la spaccatura o meno dell’edificio comune. I ricchi del Nord scenderanno a più miti consigli solo se avranno una percentuale di morti simile a quella del Sud. Se così non sarà, essi, da bravi protestanti, vi leggeranno la controprova divina della loro efficienza di formiche e della sconsideratezza delle cicale mediterranee, da punire come imprevidenti scialacquatrici. Ed è tristissimo dover tifare per il virus, sperare che la pandemia punisca l’arroganza di Johnson o l’avarizia di Bundesbank, per impedire che questo secondo scenario diventi realtà. Ed è ancora più triste ammettere che l’esistenza dell’Unione dipenderà, nei prossimi dieci giorni (tanti il Nord ne ha dati al Sud per «darsi una regolata»), più dai morti e che dai vivi. Uno scenario da film horror. Vorrei urlare queste cose nelle strade vuote con un megafono, per mettere paura a chi sta barricato in casa, dire che stiamo per finire come Pinocchio nella pancia della balena, che senza Europa e senza un comune piano Marshall siamo fregati, tutti, anche il Nord che si troverà senza il mercato del Sud. È ora di fare rete sul serio invece di chattare, per generare un effetto a catena. Questa inerzia imbambolata fa spavento e se continua di questo passo non c’è futuro se non la guerra, e quella economica non è meno atroce di quella guerreggiata. Bisogna dirlo, così come lo dicono gli ultimi sopravvissuti della Shoah e della Resistenza, o come avrebbe fatto l’immensa Ágnes Heller se non fossa morta da poco, ebrea ungherese sopravvissuta a tre dittature e spina nel fianco dell’assolutismo magiaro. Certo, posso urlare perché sono vecchio, ed essendo vecchio non ho paura di niente. È uno dei lussi dell’età ora definita “a rischio”. Ma mi ripugna lo sfogo fine a se stesso. Non mi importa niente dire, come in Jurassic Park, alla comparsa del Tirannosauro, «quanto mi secca avere sempre ragione». Quelli della mia generazione possono al massimo suggerire le parole, la memoria, la rabbia, la visione. Ma il resto è giusto che lo facciano i giovani, che il megafono passi a loro. Quelli della mia età non possono farlo, perché sono quelli che hanno castrato il loro futuro, tenendoli al guinzaglio del consumismo e contrabbandando la precarietà con la parola “flessibilità”. Da che pulpito, potrebbero dire persino i miei figli. E allora perché non andiamo a stanarli questi ragazzi che grazie a Dio il virus sembra risparmiare, e che hanno riempito piazze intere contro il ritorno delle nazioni? Non possono essersi dissolti con la loro magnifica energia! Loro, gli europei che hanno seguito Greta, i giovani delle Sardine e gli Indignados, le opposizioni in Polonia, Ungheria, Gran Bretagna. Non mi riconosco più in nessuno di questi funesti stati nazione che riemergono. Non nella Germania che dimentica di essere uscita dalle macerie grazie all’azzeramento del debito e all’aiuto di manodopera europea. Non nella Francia che ci ha snobbati fino a ieri. Non nella Spagna che ha ballato fino all’ultimo sul Titanic che affondava. Non nell’Inghilterra, in mano a una classe dirigente di dementi spocchiosi. Non nella Polonia che porta i suoi vescovi a benedire le frontiere. Ma non mi riconosco nemmeno in questa mia Italia che oggi deve ricorrere a “eroi” fino a ieri vilipesi (medici, maestri, pubblici ufficiali) dopo aver spolpato un patrimonio nazionale per ingrassare dei ladri. Un’Italia che nell’emergenza costruisce più velocemente di chiunque reparti di terapia intensiva dopo averli smantellati fino a ieri, come dice l’epicentro stesso del disastro, la Lombardia. Non credo a nessuna delle nazioni. Ma agli europei sì. Ai giovani europei, che saranno le prime vittime del crollo e che proprio per questo devono fare massa critica per rafforzare l’Europa subito, smantellando l’economia del saccheggio, partendo da un manifesto in tutte le lingue capace di dare una sberla ai nostri palazzi ridotti al sonnambulismo. Ragazzi, dovete uscire dal silenzio, muovervi per evitare la disgregazione, il si-salvi-chi-può, e che i ricchi diventino ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Non voglio che diventiate, se vi va bene, lustrascarpe di oligarchi in crociera di lusso. Sta a voi evitare l’imbarbarimento, lo scontro sociale, il saccheggio dei negozi, l’assalto alla diligenza e di conseguenza la dittatura, come nel Togo o nella Sierra Leone. E io rifiuto che quelli della mia età si ritrovino a piangere sulla vostra generazione, quando non abbiamo ancora smesso di piangere su quella del passato. Quella degli uomini e donne che hanno fatto l’Europa e che ora la peste si porta via senza nemmeno il conforto della famiglia.
La fine di un magnifico sogno, di un’alleanza che aveva tentato di costruire la convivenza sulle regole e la democrazia, non sulla potenza prevaricatrice. Mi ero illuso che i fascisti fossero spariti. In fondo Covid aveva sbugiardato le loro frontiere, come le aveva ignorate il recente sterminio dei boschi alpini causa tornado. Dimostrava che i migranti non erano solo gli altri e che l’impoverimento ci trasformava tutti in potenziali migranti. La porta che noi sbattevamo in faccia ad altri ora era sbattuta in faccia a noi. Anche gli amiconi di Salvini ce la sbattevano: anche Orbán che, da bravo ex comunista, si era già rimesso nelle mani del Cremlino. Perché la conseguenza del sovranismo è esattamente il suo contrario, la perdita della sovranità. Con l’Italia ridotta a un Paese dell’America latina col suo Pinochet di turno, o, nel migliore dei casi, a un parco dei divertimenti per turisti cinesi. La Jugoslavia insegna, con le visite guidate alle macerie di un mondo che fu. Tutto smentiva i sovranisti e io mi illudevo che fossero rimasti ammutoliti nelle loro tane. La loro sembrava una sconfitta totale. Invece no. Essi tacevano e tacciono semplicemente perché aspettano il momento. Si preparano senza fretta, come gli avvoltoi attorno a una pecora morente. Aspettano, perché in queste ore siamo proprio noi, uomini ancora liberi, a fare il lavoro per loro, a spianargli non una strada, ma un’autostrada per il potere. Noi europei, gli stessi che fino a ieri erano educatamente seduti in un emiciclo a Strasburgo. Abbiamo alzato muri e reticolati e, dopo aver distrutto l’educazione civica e il senso dello Stato, abbiamo instaurato quasi ovunque stati di polizia, senza che si fosse levata quasi nessuna voce di dissenso. Abbiamo lasciato fare Orbán, e ora costui, ottenuti i pieni poteri, ha inoculato il virus dell’assolutismo nel cuore di un corpo democratico. Ma il bello deve ancora arrivare, quando “loro” usciranno dalle catacombe. Non è più tempo di lambiccarsi con le percentuali di Pil. Abbiamo il dovere del pessimismo, di ipotizzare il peggiore degli scenari per preparare meglio le difese. Perché siamo già alla conta dei morti. Sarà questa conta a determinare la spaccatura o meno dell’edificio comune. I ricchi del Nord scenderanno a più miti consigli solo se avranno una percentuale di morti simile a quella del Sud. Se così non sarà, essi, da bravi protestanti, vi leggeranno la controprova divina della loro efficienza di formiche e della sconsideratezza delle cicale mediterranee, da punire come imprevidenti scialacquatrici. Ed è tristissimo dover tifare per il virus, sperare che la pandemia punisca l’arroganza di Johnson o l’avarizia di Bundesbank, per impedire che questo secondo scenario diventi realtà. Ed è ancora più triste ammettere che l’esistenza dell’Unione dipenderà, nei prossimi dieci giorni (tanti il Nord ne ha dati al Sud per «darsi una regolata»), più dai morti e che dai vivi. Uno scenario da film horror. Vorrei urlare queste cose nelle strade vuote con un megafono, per mettere paura a chi sta barricato in casa, dire che stiamo per finire come Pinocchio nella pancia della balena, che senza Europa e senza un comune piano Marshall siamo fregati, tutti, anche il Nord che si troverà senza il mercato del Sud. È ora di fare rete sul serio invece di chattare, per generare un effetto a catena. Questa inerzia imbambolata fa spavento e se continua di questo passo non c’è futuro se non la guerra, e quella economica non è meno atroce di quella guerreggiata. Bisogna dirlo, così come lo dicono gli ultimi sopravvissuti della Shoah e della Resistenza, o come avrebbe fatto l’immensa Ágnes Heller se non fossa morta da poco, ebrea ungherese sopravvissuta a tre dittature e spina nel fianco dell’assolutismo magiaro. Certo, posso urlare perché sono vecchio, ed essendo vecchio non ho paura di niente. È uno dei lussi dell’età ora definita “a rischio”. Ma mi ripugna lo sfogo fine a se stesso. Non mi importa niente dire, come in Jurassic Park, alla comparsa del Tirannosauro, «quanto mi secca avere sempre ragione». Quelli della mia generazione possono al massimo suggerire le parole, la memoria, la rabbia, la visione. Ma il resto è giusto che lo facciano i giovani, che il megafono passi a loro. Quelli della mia età non possono farlo, perché sono quelli che hanno castrato il loro futuro, tenendoli al guinzaglio del consumismo e contrabbandando la precarietà con la parola “flessibilità”. Da che pulpito, potrebbero dire persino i miei figli. E allora perché non andiamo a stanarli questi ragazzi che grazie a Dio il virus sembra risparmiare, e che hanno riempito piazze intere contro il ritorno delle nazioni? Non possono essersi dissolti con la loro magnifica energia! Loro, gli europei che hanno seguito Greta, i giovani delle Sardine e gli Indignados, le opposizioni in Polonia, Ungheria, Gran Bretagna. Non mi riconosco più in nessuno di questi funesti stati nazione che riemergono. Non nella Germania che dimentica di essere uscita dalle macerie grazie all’azzeramento del debito e all’aiuto di manodopera europea. Non nella Francia che ci ha snobbati fino a ieri. Non nella Spagna che ha ballato fino all’ultimo sul Titanic che affondava. Non nell’Inghilterra, in mano a una classe dirigente di dementi spocchiosi. Non nella Polonia che porta i suoi vescovi a benedire le frontiere. Ma non mi riconosco nemmeno in questa mia Italia che oggi deve ricorrere a “eroi” fino a ieri vilipesi (medici, maestri, pubblici ufficiali) dopo aver spolpato un patrimonio nazionale per ingrassare dei ladri. Un’Italia che nell’emergenza costruisce più velocemente di chiunque reparti di terapia intensiva dopo averli smantellati fino a ieri, come dice l’epicentro stesso del disastro, la Lombardia. Non credo a nessuna delle nazioni. Ma agli europei sì. Ai giovani europei, che saranno le prime vittime del crollo e che proprio per questo devono fare massa critica per rafforzare l’Europa subito, smantellando l’economia del saccheggio, partendo da un manifesto in tutte le lingue capace di dare una sberla ai nostri palazzi ridotti al sonnambulismo. Ragazzi, dovete uscire dal silenzio, muovervi per evitare la disgregazione, il si-salvi-chi-può, e che i ricchi diventino ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Non voglio che diventiate, se vi va bene, lustrascarpe di oligarchi in crociera di lusso. Sta a voi evitare l’imbarbarimento, lo scontro sociale, il saccheggio dei negozi, l’assalto alla diligenza e di conseguenza la dittatura, come nel Togo o nella Sierra Leone. E io rifiuto che quelli della mia età si ritrovino a piangere sulla vostra generazione, quando non abbiamo ancora smesso di piangere su quella del passato. Quella degli uomini e donne che hanno fatto l’Europa e che ora la peste si porta via senza nemmeno il conforto della famiglia.
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