"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 15 aprile 2020

Leggereperché. 05 «La "realtà" del mondo ha già da tempo ceduto il posto alla sua versione "telecomunicata"».


Tratto da “Rifuggiamo dal silenzio perché fuggiamo da noi stessi” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 15 di aprile dell’anno 2017: Abbiamo tutti paura che fermare le parole ci possa costringere a guardare più a fondo nel nostro intimo. Fuggiamo dal silenzio perché fuggiamo da noi stessi, allo scopo di evitare l'incontro che più ci inquieta, il contatto con quello sconosciuto che preferiamo non conoscere, anche se porta il nostro nome, i tratti del nostro volto, i moti della nostra anima, la sua luce, le sue ombre. Abbiamo paura che un attimo di silenzio ci costringa alla "ri-flessione" che, come dice la parola, chiede ci si pieghi su di noi per sapere, almeno di sfuggita, chi siamo, che volto abbiamo, che pensieri ci attraversano, che sentimenti ci inquietano.
No. È troppo doloroso questo incontro, meglio perdersi nel rumore del mondo, dove non si corre il rischio di trovare un posto silenzioso che non sia inondato di immagini che rinviano ad altre immagini, o di voci che rimandano ad altre voci, che non nascono da quello sfondo che è il silenzio, perché sono loro lo sfondo. Il rumore del mondo è così pervasivo che più non abbiamo la possibilità di non ascoltare e di non vedere, per cui i nostri organi di senso sono diventati gli organi della nostra illibertà, perché ciascuno è massicciamente rifornito delle stesse immagini e delle stesse parole, al punto che, anche chi fosse tentato da un piccolo accenno di introversione, troverebbe, in fondo alla propria anima, null'altro che le immagini e le voci di cui è stato rifornito. Se gli antichi Greci avevano individuato nella parola il tratto distintivo dell'uomo, da loro definito: "L'animale che ha il linguaggio", che ne è di questa sua specifica natura se la parola che egli pronuncia non è che una variante della parola che ha sentito. Per cui, come scrive Günther Anders, il risultato è: "Un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa", in quel monologo collettivo, che noi chiamiamo "comunicazione" o "partecipazione", dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le stesse cose che potrebbe dire, e chi parla dice le identiche cose che da chiunque può ascoltare. Non siamo più in grado di parlare in prima persona e anche se riempiamo la "rete" di immagini e di parole, entusiasti di quel mezzo che ci toglie dalla solitudine e dal silenzio, non illudiamoci. Per effetto della sua espansività e della nostra massiccia partecipazione, la rete non è più un "mezzo" che ciascuno di noi può impiegare per le finalità che sceglie, ma diventa ogni giorno di più il "mondo" che non ci concede altra libertà se non quella di prendervi parte o di starcene in disparte. Ma è davvero possibile starsene in disparte se la "realtà" del mondo ha già da tempo ceduto il posto alla sua versione "telecomunicata"? Radio e televisione hanno terrore del silenzio, al punto che le parole si rincorrono con una velocità tale che molto spesso non si riesce neppure più a capirle. Parole continuamente parlate ai telefonini, con le orecchie tappate da dispositivi sempre pronti a sentir musica e parole. Discoteche dove il volume della musica sembra fatto apposta per giustificare chi non ha niente da dire, anche se si sforza. Imbarazzo nel "minuto di silenzio" dove non si sa dove appoggiare lo sguardo e mettere le mani. Persino ai funerali, dove il nostro silenzio potrebbe rispettosamente accompagnare il silenzio del defunto, assistiamo a uno sbatacchiare di mani, quasi per esorcizzare lo spettacolo della morte che è l'eterno silenzio. Naturalmente quando parliamo non ascoltiamo l'altro senza sopprimere la sua irriducibile alterità. E la stessa cosa facciamo con noi quando, invece di ascoltare l'altra parte di noi stessi che si fa sentire solo nel silenzio, la sopprimiamo con tutte le parole con cui ci descriviamo, nel tentativo mai dismesso di rappresentarci davanti agli altri e a noi stessi, in quell'inconsapevole menzogna di chi si descrive in quel certo modo, il più delle volte gratificante, perché non conosce e non vuol conoscere sé stesso.

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, come spesso avviene,e di questo ti ringrazio, anche la lettura di questo post mi ha indotto a riflettere a lungo. Mi è tornata alla mente una di quelle citazioni che gelosamente conservo:"L'inizio della saggezza è il silenzio"(Pitagora). Senza dubbio l'uomo autentico ama il silenzio, medita nel silenzio, decide nel silenzio. Non si deve avere paura del silenzio, esso è maestro di verità, è pace, gioia, serenità. Un silenzio salutare affonda le radici nel profondo del proprio essere, in quella parte di sé accessibile, forse, solo a chi dimostra di meritare l'accesso. Un silenzio che racchiude la propria storia con tutte le sue sfaccettature:l'inquietudine di quelle notti in cui il sole sembrava attardarsi a sorgere oppure il sentimento di ingiustizia per il sale sopra una ferita ancora sanguinante. Il silenzio è sempre presente anche tra le parole. Molti pensano che comunicare sia parlare bene, mentre comunicare è essenzialmente sapere ascoltare.Senza il silenzio non può esserci vera comunicazione. Le parole non sono l'unico modo in cui una persona può esprimersi, è proprio dal"non detto" che nasce la prima forma di comunicazione. Attraverso il silenzio è possibile instaurare una forma di dialogo interiore, così che i pensieri possano assumere una forma nuova, come anche le emozioni e i sentimenti. Inoltre attraverso le "non parole" impariamo a conoscere noi stessi,a ragionare, a pensare. Ci sono silenzi colmi di solitudine, silenzi che ostacolano la comunicazione, silenzi assordanti che bloccano le parole. Silenzi che nutrono l'anima e altri che l'anima la uccidono. Se è vero che il silenzio può essere la più grande forma di introspezione, è anche vero che non comunicare può essere in alcune situazioni anche molto pericoloso, poiché influisce negativamente sulla chiarezza delle relazioni. Grazie e buona continuazione. Agnese A.

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