Tratto da “Tutto
perdonato?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del
quotidiano “la Repubblica” del 18 di aprile dell’anno 2015: Ancora
su colpa e assoluzione: è un tema che mette allo scoperto il modo di concepire
la religione. Per questo anche per un laico vale la pena di ragionarci. Ci sono
dei credenti caratterizzati dal loro incrollabile dogmatismo che, a sentire il
più grande psicopatologo del Novecento, Karl Jaspers, cercano nella fede una
sicurezza che manca alla loro personalità, e perciò non sono tanto dei
"credenti" (Glaubende) quanto dei "militanti della fede"
(Glaubenskämpfer). Con costoro non è possibile instaurare un dialogo, perché il
recinto della dialogicità è precluso dalla loro incrollabile e minacciosa
sicurezza (bedrohende Sicherheit). Ci sono invece dei credenti che non
discutono su Dio, perché semplicemente ne sentono la presenza e a lui si
rapportato con gli strumenti del cuore, capace di creare immagini (…): «Dio si
comporta con noi, come noi con i nostri figli». Con costoro io riesco a
parlare, non perché creda in Dio ma perché l'immagine di Dio che mi offrono, la
assumo come una metafora dell'amore, per capire il quale, abbiamo bisogno di
simboli potenti che sappiano dire l'invisibile e l'ineffabile. Allo stesso modo
in cui tanta letteratura si è dedicata al tentativo di approssimarsi al mistero
che è l'amore. Siccome penso che la religione appartenga alla sfera del cuore,
come tutto ciò che appartiene al cuore non è regolata dalla ragione, ma si
muove in quello scenario inquietante dove la maledizione si confonde con la
benedizione, il bene con il male, la gioia col dolore, la legge del giorno con
il buio della notte.
Questo infatti è il "sacro" che, come vuole l'etimologia indoeuropea, significa "separato" dalla vita quotidiana di tutti i giorni regolati dalla razionalità, nata come difesa dall'invasione minacciosa del sacro, del quale la follia non è altro che un segno del tratto sconvolgente. Bene, con costoro che collocano Dio nelle regioni del cuore, e sanno che il cuore non è una dimora tranquilla, non è confidenza, conforto, comprensione, condivisione, promessa di fede eterna, ma tumulto, inquietudine, persino guerra e distruzione, con costoro amo parlare di Dio. A una condizione, però: che anche loro facciano uno sforzo per portarsi all'altezza del "timor di Dio", che non è una frase fatta e neppure una formula di rispetto, ma il richiamo a non dimenticare che l'amor di Dio non deve mai separarsi dal timore di Dio, perché tutto ciò che è sacro non dimette mai la sua minaccia. Per questo sono nate le religioni, per "re-legare", recintare, contenere l'area del sacro, per difendere la comunità dalla sua possibile invasione, e per la stessa ragione gli uomini hanno sempre offerto sacrifici agli dèi, non per ottenere grazie, ma per tenerli lontani. E perciò hanno separato gli spazi sacri (templi, chiese moschee, sinagoghe) dagli spazi profani, giorni sacri (le feste, che non a caso sono tutte "comandate") dai giorni profani, e per il contatto col sacro hanno preposto i "sacer-doti" persone che si intendono di cose sacre e perciò sono "consacrate" e separate dal resto della comunità. Smarrito il senso del sacro, il cristianesimo ha immaginato un Dio in ogni suo aspetto buono assegnando il male a Satana, suo avversario. Dal Dio buono scende la misericordia e il perdono, amministrato dai sacerdoti in confessione, dove si perdonano le deroghe (i peccati) alle regole predicate dal pulpito. Per questo parlavo, (…), a proposito del perdono, come di una mala educazione alla doppia coscienza, perché se tutto può essere così facilmente perdonato, anche la colpa diventa irrilevante e più non tormenta la coscienza, che così è indotta a trattare con disinvoltura regole e deroghe a secondo delle convenienze. Tanto c'è il perdono.
Questo infatti è il "sacro" che, come vuole l'etimologia indoeuropea, significa "separato" dalla vita quotidiana di tutti i giorni regolati dalla razionalità, nata come difesa dall'invasione minacciosa del sacro, del quale la follia non è altro che un segno del tratto sconvolgente. Bene, con costoro che collocano Dio nelle regioni del cuore, e sanno che il cuore non è una dimora tranquilla, non è confidenza, conforto, comprensione, condivisione, promessa di fede eterna, ma tumulto, inquietudine, persino guerra e distruzione, con costoro amo parlare di Dio. A una condizione, però: che anche loro facciano uno sforzo per portarsi all'altezza del "timor di Dio", che non è una frase fatta e neppure una formula di rispetto, ma il richiamo a non dimenticare che l'amor di Dio non deve mai separarsi dal timore di Dio, perché tutto ciò che è sacro non dimette mai la sua minaccia. Per questo sono nate le religioni, per "re-legare", recintare, contenere l'area del sacro, per difendere la comunità dalla sua possibile invasione, e per la stessa ragione gli uomini hanno sempre offerto sacrifici agli dèi, non per ottenere grazie, ma per tenerli lontani. E perciò hanno separato gli spazi sacri (templi, chiese moschee, sinagoghe) dagli spazi profani, giorni sacri (le feste, che non a caso sono tutte "comandate") dai giorni profani, e per il contatto col sacro hanno preposto i "sacer-doti" persone che si intendono di cose sacre e perciò sono "consacrate" e separate dal resto della comunità. Smarrito il senso del sacro, il cristianesimo ha immaginato un Dio in ogni suo aspetto buono assegnando il male a Satana, suo avversario. Dal Dio buono scende la misericordia e il perdono, amministrato dai sacerdoti in confessione, dove si perdonano le deroghe (i peccati) alle regole predicate dal pulpito. Per questo parlavo, (…), a proposito del perdono, come di una mala educazione alla doppia coscienza, perché se tutto può essere così facilmente perdonato, anche la colpa diventa irrilevante e più non tormenta la coscienza, che così è indotta a trattare con disinvoltura regole e deroghe a secondo delle convenienze. Tanto c'è il perdono.
Carissimo Aldo, mi sono soffermata con grande piacere a leggere questo stupendo post e non mi è stato difficile accettare con piena convinzione e condividere la concezione del Professor Galimberti, secondo cui la religione appartiene alla sfera del cuore. Mi piace pensare al cuore come metafora del sentimento. Il sentimento in quanto forza, che è alla base di ogni decisione. Sentimento che identificherei con l'amore, espressione anche di una vera e propria facoltà conoscitiva distinta e, in alcuni casi, forse, superiore sia alla percezione sensibile che alla razionalità, perché "Noi conosciamo la verità, non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore" (B. Pascal). Quel cuore "metafora dell'amore", "mistero" che affascina e confonde ogni essere umano. L'amore vero è gioia, ma, per essere tale, non deve prescindere dalle regole e far tacere la voce della coscienza, altrimenti diventerebbe dolore e tormento interiore, tanto forte che nessun tipo di perdono riuscirebbe a placare. Grazie e buona continuazione. Agnese A.
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