Tratto
da “Il tempo delle domande” di
Maurizio Maggiani, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la
Repubblica” del 4 di aprile 2020: Io risiedo nel privilegio, vivo in una
vecchia casa ben fatta nel mezzo di una collina tenuta a vigna e frutteto. Il
mio vicino più vicino è Giorgio, la sua casa è a duecento metri dalla nostra,
ci divide un fosso e un filare di pioppi, nella ripa del fosso, tra le radici
di una grande quercia, vive un grosso, scorbutico tasso, se sono abbastanza
discreto lo vedo la sera sgrufolare tra gli umidori in cerca dei suoi amati
lombrichi.
Giorgio esce di casa solo sul suo trattore da duecento cavalli e guida satellitare, è sempre stato così, quando ci incontriamo mi parla da su in giù, da una posizione più che sicura, mi parla della sua ossessione, che non è il virus, ma il coleottero turco che gli sta mangiando le viti da quest’inverno, si sta decidendo per le maniere forti, le sue maniere forti sono molto forti, e è ancora nel dubbio che le viti potranno sopravvivergli. All’incrocio delle carrere che portano alle nostre case c’è un’edicola della Madonna delle Grazie, la madonna che ha salvato queste terre dal terremoto del 1785 e dai bombardamenti del ’44, il vecchio prete che amministra le anime sediziose di questa parrocchia viene una volta alla settimana verso il tramonto a pregarla per l’epidemia, mormora le sue cose con discrezione, l’altro ieri, nel silenzio vespertino, s’è sentito attaccato all’organo della sua chiesa laggiù a Briccola che suonava Bandiera Rossa. Risiedo nel privilegio. Col bel tempo che fa, passo buona parte del giorno all’aperto, nel giardino sono fiorite le giunchiglie e le bocche di leone, i tulipani sono lì lì, prendo e vago per i deserti campi, qua e là qualche bracciante rifinisce le potature, lavoro leggero più che altro per garantirgli il monte ore per la previdenza sociale, ci sbracciamo a salutarci, la stagione è in anticipo, i frutteti in fiore, la terra chiede già acqua, vago e sono già stanco prima di oltrepassare i vaghi confini comunali, posso rispettare le ordinanze senza dolermene. In casa siamo in cinque ma c’è spazio per tutti. Solo modesti accorgimenti, i turni per internet, qui di banda larga non se ne parla, il contingentamento delle chiacchere sul virus a pranzo e cena, mai oltre la minestra, il paio d’ore che prendiamo i telefoni e chiamiamo gli amici che vivono soli, che se ne stanno in due in quaranta metri, che hanno già perso il lavoro o lo stanno per perdere, che non godono di nessun privilegio, avremmo voluto che qualcuno venisse a sfollare qui da noi, quelli con dei bambini, ma le norme non lo consentono. A notte chi vuole legge fino a tardi. Io non leggo un granché, tutti i tempi sono buoni per leggere, in questo tempo intendo usare bene il mio privilegio per esercitarmi in un’altra attività dello spirito, l’interrogazione. Nel caos l’interrogazione è l’abito della ragione, nella crisi farsi domande ragionevoli un bene primario, l’unica cura buona per l’ansia, l’incoscienza, l’invalidità. E applicarsi a dare ragionevoli risposte, perché ci sarà un dopo, naturalmente ci sarà, e dipenderà dalle risposte di oggi se sarà un deserto disseminato di cadaveri, ogni sorta di cadavere, o qualcosa di nuovo, benaugurato e sorprendentemente promettente. È sempre stato così, nessun’altra via. E mi domando. Mi sto assoggettando a questo duro regime di restrizioni e costrizioni perché aderisco con convinzione a un patto di fiducia con chi me le impone, perché condivido la veridicità delle informazioni che le hanno dettate, perché riconosco il governo del mio paese come contraente sincero e positivo del patto? O perché ho paura di morire e pur di vivere sono disposto a firmare qualunque carta? Se non fossi convinto della bontà del patto sarei latitante già da un pezzo, perché spogliato di sincerità tutto questo altro non sarebbe che l’immagine plastica di un colpo di stato di inedita e squisita fattura. Se è la paura che mi regola, sicuro che ci sarà un tempo in cui smetterò di avere paura? Non sarà facile, e probabilmente gradirei che il tempo di eccezione diventasse regola, con qualche aggiustamento i limiti e le costrizioni saranno ben tollerati in cambio della vita, se vivere è il contrario di morire ogni regime vien bene. Noi stiamo a casa. Stiamo a casa per non ammalarci o perché siamo malati? Temo quanto il contagio la lenta, penetrante, persuasiva idea di una generale infermità. Come se tutto il Paese si fosse messo a letto rimbambito da un’epidemia di esantematiche. Generosamente gli addetti al conforto si ingegnano a titillarci con musiche adatte, programmi televisivi riadattati, benigni consigli di vita, allegre storielle. Come se fosse ovvio che non abbiamo la forza e la voglia di inventarci niente per tirare avanti, come se non ci infilassero il termometro in bocca non sapremmo dove metterlo. Le stesse ordinanze o ci vengono urlate dai megafoni per strada o sussurrate suadenti dai divi, come si fa con i bambini prima e dopo aver perso la pazienza. Ci insegnano come fare il pane, come carezzare i figli, come lavarci le mani, ci leggono persino i libri, come se fossimo incapaci di leggerceli da soli, come se non avessimo la forza fisica di spendere dieci euro per farci recapitare un libro e quella intellettuale di metterci una buona volta a leggercelo. È così che siamo? Sappiamo che i bambini guariscono quando cominciano a saltare sul letto anche se hanno ancora qualche linea di febbre. E gli adulti, come sapranno di essere guariti, sempre che ne abbiano ancora voglia? Ci sarà da costruire un mondo, non è il caso che lo facciano dei rimbambiti, quali strategie abbiamo per essere adulti già oggi?
Oggi siamo tutti più buoni, chi ieri era svillaneggiato come buonista, lo era almeno dalla buona maggioranza degli aventi diritto al voto, oggi è un esempio. Persino il pugno di ferro contro le ONG ora è un sommesso pietire aiuto. Ma davvero siamo diventati buoni? E perché non lo eravamo ieri? Cosa di preminente e vitale ci induceva ieri a essere egoisti, egotisti, individualisti, menefreghisti? Riscopriamo le piccole cose, la bellezza dei piccoli gesti, ma cosa, ma chi, ci ha indotto ieri a fare dell’altro, e perché mai? È stato il logorio della vita moderna, o perché le nostre anime sono state pagate con altra moneta? Va bene, oggi siamo tutti dei santi di pietà e compassione, forse perché stiamo tutti quanti per morire e ci chiama l’inferno? Siamo invece allo straordinario, gratuito, universale e sincero pentimento? Redenzione, è magnifico pensare di esserne capaci, ci dà forza, ci dà speranza, ci dice che possiamo sempre farla franca. E dopo, cosa ce ne faremo dopo della nostra redenzione, cosa ce ne faremo delle piccole cose e dei piccoli gesti, ieri non valevano niente, perché domani dovrebbero valere qualcosa? E se volessimo tenerli, sapremo dove metterli? Nella scatola delle foto ricordo o nella vita nova? Sappiamo anche solo immaginarla una vita nova? Ci sarà consentito anche solo di immaginarla se continueremo ad aver paura? Perché la vita non è solo il contrario della morte, no. Siamo oggi tutti socialisti, soprattutto i più fanatici tra i liberisti. Abbiamo ripreso a invocare lo Stato, ci chiediamo esterrefatti come sia stato possibile ridurre la pubblica sanità a mendicare un tozzo di respiratore, ma quanti di noi si sono incatenati alle soglie del parlamento nei decenni in cui è stata dissanguata? Abbiamo promosso, sostenuto come inevitabile, assecondato, un sistema economico che ha il potere sulle nostre vite una per una, il sistema che nutre la sua immortalità dissanguando ogni essere che vive. Oggi questo sistema che non ha paura di niente, nemmeno della storia visto che ne ha decretato la fine, si è preso paura del virus. Non crede più in niente, non crede nelle sue creature predilette, non crede più in sé stesso, crede solo nel virus, e vede ciò che vediamo noi, una straziante agonia senza cura, anche solo fosse palliativa. E dopo, dopo questa carneficina di vite, di ricchezze, di imprese, di risorse, di lavoro, a cosa saremo disposti? Forse a sopravvivere in qualche modo in uno sterminato campo di sconfitta? Forse al socialismo? Perché se è così, allora si impone la rivoluzione. Ma abbiamo una vaga idea di come si conduce una rivoluzione che non sia un’altra carneficina? Che non sia un lampo di rivolta e poi una reazione senza fine. Qualcuno lo sa? Io no, io ci penso, mi interrogo e non lo so. Allora considero il mio privilegio e penso che niente lo possa giustificare.
Giorgio esce di casa solo sul suo trattore da duecento cavalli e guida satellitare, è sempre stato così, quando ci incontriamo mi parla da su in giù, da una posizione più che sicura, mi parla della sua ossessione, che non è il virus, ma il coleottero turco che gli sta mangiando le viti da quest’inverno, si sta decidendo per le maniere forti, le sue maniere forti sono molto forti, e è ancora nel dubbio che le viti potranno sopravvivergli. All’incrocio delle carrere che portano alle nostre case c’è un’edicola della Madonna delle Grazie, la madonna che ha salvato queste terre dal terremoto del 1785 e dai bombardamenti del ’44, il vecchio prete che amministra le anime sediziose di questa parrocchia viene una volta alla settimana verso il tramonto a pregarla per l’epidemia, mormora le sue cose con discrezione, l’altro ieri, nel silenzio vespertino, s’è sentito attaccato all’organo della sua chiesa laggiù a Briccola che suonava Bandiera Rossa. Risiedo nel privilegio. Col bel tempo che fa, passo buona parte del giorno all’aperto, nel giardino sono fiorite le giunchiglie e le bocche di leone, i tulipani sono lì lì, prendo e vago per i deserti campi, qua e là qualche bracciante rifinisce le potature, lavoro leggero più che altro per garantirgli il monte ore per la previdenza sociale, ci sbracciamo a salutarci, la stagione è in anticipo, i frutteti in fiore, la terra chiede già acqua, vago e sono già stanco prima di oltrepassare i vaghi confini comunali, posso rispettare le ordinanze senza dolermene. In casa siamo in cinque ma c’è spazio per tutti. Solo modesti accorgimenti, i turni per internet, qui di banda larga non se ne parla, il contingentamento delle chiacchere sul virus a pranzo e cena, mai oltre la minestra, il paio d’ore che prendiamo i telefoni e chiamiamo gli amici che vivono soli, che se ne stanno in due in quaranta metri, che hanno già perso il lavoro o lo stanno per perdere, che non godono di nessun privilegio, avremmo voluto che qualcuno venisse a sfollare qui da noi, quelli con dei bambini, ma le norme non lo consentono. A notte chi vuole legge fino a tardi. Io non leggo un granché, tutti i tempi sono buoni per leggere, in questo tempo intendo usare bene il mio privilegio per esercitarmi in un’altra attività dello spirito, l’interrogazione. Nel caos l’interrogazione è l’abito della ragione, nella crisi farsi domande ragionevoli un bene primario, l’unica cura buona per l’ansia, l’incoscienza, l’invalidità. E applicarsi a dare ragionevoli risposte, perché ci sarà un dopo, naturalmente ci sarà, e dipenderà dalle risposte di oggi se sarà un deserto disseminato di cadaveri, ogni sorta di cadavere, o qualcosa di nuovo, benaugurato e sorprendentemente promettente. È sempre stato così, nessun’altra via. E mi domando. Mi sto assoggettando a questo duro regime di restrizioni e costrizioni perché aderisco con convinzione a un patto di fiducia con chi me le impone, perché condivido la veridicità delle informazioni che le hanno dettate, perché riconosco il governo del mio paese come contraente sincero e positivo del patto? O perché ho paura di morire e pur di vivere sono disposto a firmare qualunque carta? Se non fossi convinto della bontà del patto sarei latitante già da un pezzo, perché spogliato di sincerità tutto questo altro non sarebbe che l’immagine plastica di un colpo di stato di inedita e squisita fattura. Se è la paura che mi regola, sicuro che ci sarà un tempo in cui smetterò di avere paura? Non sarà facile, e probabilmente gradirei che il tempo di eccezione diventasse regola, con qualche aggiustamento i limiti e le costrizioni saranno ben tollerati in cambio della vita, se vivere è il contrario di morire ogni regime vien bene. Noi stiamo a casa. Stiamo a casa per non ammalarci o perché siamo malati? Temo quanto il contagio la lenta, penetrante, persuasiva idea di una generale infermità. Come se tutto il Paese si fosse messo a letto rimbambito da un’epidemia di esantematiche. Generosamente gli addetti al conforto si ingegnano a titillarci con musiche adatte, programmi televisivi riadattati, benigni consigli di vita, allegre storielle. Come se fosse ovvio che non abbiamo la forza e la voglia di inventarci niente per tirare avanti, come se non ci infilassero il termometro in bocca non sapremmo dove metterlo. Le stesse ordinanze o ci vengono urlate dai megafoni per strada o sussurrate suadenti dai divi, come si fa con i bambini prima e dopo aver perso la pazienza. Ci insegnano come fare il pane, come carezzare i figli, come lavarci le mani, ci leggono persino i libri, come se fossimo incapaci di leggerceli da soli, come se non avessimo la forza fisica di spendere dieci euro per farci recapitare un libro e quella intellettuale di metterci una buona volta a leggercelo. È così che siamo? Sappiamo che i bambini guariscono quando cominciano a saltare sul letto anche se hanno ancora qualche linea di febbre. E gli adulti, come sapranno di essere guariti, sempre che ne abbiano ancora voglia? Ci sarà da costruire un mondo, non è il caso che lo facciano dei rimbambiti, quali strategie abbiamo per essere adulti già oggi?
Oggi siamo tutti più buoni, chi ieri era svillaneggiato come buonista, lo era almeno dalla buona maggioranza degli aventi diritto al voto, oggi è un esempio. Persino il pugno di ferro contro le ONG ora è un sommesso pietire aiuto. Ma davvero siamo diventati buoni? E perché non lo eravamo ieri? Cosa di preminente e vitale ci induceva ieri a essere egoisti, egotisti, individualisti, menefreghisti? Riscopriamo le piccole cose, la bellezza dei piccoli gesti, ma cosa, ma chi, ci ha indotto ieri a fare dell’altro, e perché mai? È stato il logorio della vita moderna, o perché le nostre anime sono state pagate con altra moneta? Va bene, oggi siamo tutti dei santi di pietà e compassione, forse perché stiamo tutti quanti per morire e ci chiama l’inferno? Siamo invece allo straordinario, gratuito, universale e sincero pentimento? Redenzione, è magnifico pensare di esserne capaci, ci dà forza, ci dà speranza, ci dice che possiamo sempre farla franca. E dopo, cosa ce ne faremo dopo della nostra redenzione, cosa ce ne faremo delle piccole cose e dei piccoli gesti, ieri non valevano niente, perché domani dovrebbero valere qualcosa? E se volessimo tenerli, sapremo dove metterli? Nella scatola delle foto ricordo o nella vita nova? Sappiamo anche solo immaginarla una vita nova? Ci sarà consentito anche solo di immaginarla se continueremo ad aver paura? Perché la vita non è solo il contrario della morte, no. Siamo oggi tutti socialisti, soprattutto i più fanatici tra i liberisti. Abbiamo ripreso a invocare lo Stato, ci chiediamo esterrefatti come sia stato possibile ridurre la pubblica sanità a mendicare un tozzo di respiratore, ma quanti di noi si sono incatenati alle soglie del parlamento nei decenni in cui è stata dissanguata? Abbiamo promosso, sostenuto come inevitabile, assecondato, un sistema economico che ha il potere sulle nostre vite una per una, il sistema che nutre la sua immortalità dissanguando ogni essere che vive. Oggi questo sistema che non ha paura di niente, nemmeno della storia visto che ne ha decretato la fine, si è preso paura del virus. Non crede più in niente, non crede nelle sue creature predilette, non crede più in sé stesso, crede solo nel virus, e vede ciò che vediamo noi, una straziante agonia senza cura, anche solo fosse palliativa. E dopo, dopo questa carneficina di vite, di ricchezze, di imprese, di risorse, di lavoro, a cosa saremo disposti? Forse a sopravvivere in qualche modo in uno sterminato campo di sconfitta? Forse al socialismo? Perché se è così, allora si impone la rivoluzione. Ma abbiamo una vaga idea di come si conduce una rivoluzione che non sia un’altra carneficina? Che non sia un lampo di rivolta e poi una reazione senza fine. Qualcuno lo sa? Io no, io ci penso, mi interrogo e non lo so. Allora considero il mio privilegio e penso che niente lo possa giustificare.
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