Tratto da “Per
non essere schiavi serve tempo liberato” di Massimo Fini, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 27 di aprile dell’anno 2018: (…). In epoca preindustriale il lavoro, per dirla con San Paolo, è “uno spiacevole sudore
della fronte”. Non è un valore. È nobile chi non lavora. Con quel grandioso
fenomeno (a parer mio non ancora studiato a sufficienza) che prende il nome di
Rivoluzione industriale la prospettiva cambia radicalmente. Sia nella versione
marxista che liberista dell’Illuminismo, che cerca di razionalizzare le
profonde novità introdotte da questa Rivoluzione, il lavoro diventa centrale.
Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno “schiavo
di Stato”, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è esattamente quel
fattore che combinandosi col capitale dà il famoso “plusvalore”. Per me il vero
valore della vita è il tempo e l’ho scritto in tutta la mia opera. La novità
portata, (…), è di aver precisato, con la sua definizione di “tempo liberato”,
di quale tempo si stia parlando. In che cosa si distingue il “tempo liberato”
dal più noto tempo libero? Il tempo libero è un tempo sincopato, determinato
dai ritmi e dai tempi del lavoro. In realtà non è affatto ‘libero’, ma è
destinato al consumo senza il quale tutto il grande castello produttivo che
abbiamo costruito, e sul quale si basa l’attuale modello di sviluppo,
crollerebbe miseramente. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per
poter produrre, un’aberrante incongruenza che era già stata avvertita da Adam
Smith che pur è, insieme a David Ricardo, uno dei padri fondatori di questo
sistema. “Dobbiamo consumare per aiutare la produzione”, quante volte ci siamo
sentiti ripetere questa frase dagli economisti e dagli uomini politici?
Il “tempo libero” quindi non è affatto tale, non solo perché è determinato inesorabilmente dai ritmi e dalle esigenze dei tempi del lavoro e della produzione ma perché deve essere destinato al consumo compulsivo e nevrotico. Milano da questo punto di vista è una buona base di osservazione. Nel weekend i milanesi schizzano via e si catapultano, a seconda delle stagioni, a Cortina, a Saint Moritz, a Gstaad o a Portofino, a Rapallo, a Forte dei Marmi, dove vedono le stesse persone che hanno lasciato in città e si abbandonano agli stessi riti e agli stessi ritmi. Per rientrare la domenica sera più stanchi e sfatti di quando sono partiti. Paradossalmente se la passa meglio chi, per mancanza di denaro, resta in città. È “la ricchezza di chi è più povero” per parafrasare un aforisma di Nietzsche capovolgendolo lessicalmente ma mantenendone il senso. Il “tempo liberato” è invece quello che dedichiamo a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla riflessione, alla contemplazione, alla creatività disinteressata. È un tempo quasi “religioso” (non per nulla sia Wojtyla che Francesco ne hanno fatto a volte cenno) intendendo questa espressione in senso molto lato. (…). È chiaro che la piena attuazione del “tempo liberato”, a scapito del mito del lavoro, imporrebbe uno scaravoltamento dell’attuale modello di sviluppo, al momento impensabile. Per ora accontentiamoci del possibile: che sia la tecnologia a lavorare, almeno in parte, al nostro posto, senza per questo sbatterci sul lastrico (il “reddito di cittadinanza”, il cui contenuto va naturalmente approfondito e meglio disegnato, va in questo senso) e non noi a dover lavorare, a velocità sempre più sostenuta, in funzione della tecnologia.
Il “tempo libero” quindi non è affatto tale, non solo perché è determinato inesorabilmente dai ritmi e dalle esigenze dei tempi del lavoro e della produzione ma perché deve essere destinato al consumo compulsivo e nevrotico. Milano da questo punto di vista è una buona base di osservazione. Nel weekend i milanesi schizzano via e si catapultano, a seconda delle stagioni, a Cortina, a Saint Moritz, a Gstaad o a Portofino, a Rapallo, a Forte dei Marmi, dove vedono le stesse persone che hanno lasciato in città e si abbandonano agli stessi riti e agli stessi ritmi. Per rientrare la domenica sera più stanchi e sfatti di quando sono partiti. Paradossalmente se la passa meglio chi, per mancanza di denaro, resta in città. È “la ricchezza di chi è più povero” per parafrasare un aforisma di Nietzsche capovolgendolo lessicalmente ma mantenendone il senso. Il “tempo liberato” è invece quello che dedichiamo a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla riflessione, alla contemplazione, alla creatività disinteressata. È un tempo quasi “religioso” (non per nulla sia Wojtyla che Francesco ne hanno fatto a volte cenno) intendendo questa espressione in senso molto lato. (…). È chiaro che la piena attuazione del “tempo liberato”, a scapito del mito del lavoro, imporrebbe uno scaravoltamento dell’attuale modello di sviluppo, al momento impensabile. Per ora accontentiamoci del possibile: che sia la tecnologia a lavorare, almeno in parte, al nostro posto, senza per questo sbatterci sul lastrico (il “reddito di cittadinanza”, il cui contenuto va naturalmente approfondito e meglio disegnato, va in questo senso) e non noi a dover lavorare, a velocità sempre più sostenuta, in funzione della tecnologia.
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