Per ricordare Primo Michele Levi - Torino, 31 di luglio
dell’anno 1919/Torino, 11 di aprile dell’anno 1987 - il testo di Marco
Belpoliti tratto da “Caro Primo Levi c’è
bisogno di te”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 31 di luglio dell’anno
2019:
l'altra sera sono passato sotto casa sua
sperando di incontrarla. Ma era tardi e probabilmente Lei era già rientrato e
stava cenando. Perciò mi sono fermato sotto l'ippocastano della sua poesia,
Cuore di legno, e ho provato a guardare in su, verso le finestre del suo
appartamento. Era tutto spento. Avevo varie domande da porle. Non si preoccupi,
non le chiederò, come l'è capitato varie volte nelle scuole dove andava a
parlare della sua esperienza nel Lager, perché Lei e i suoi compagni non siete
evasi dal campo di Monowitz-Auschwitz. Dopo aver letto e riletto in questi anni
Se questo è un uomo mi sembra di aver capito quale sia stato lo shock che ha
subìto entrando nel campo, dove non valeva la divisione tra amici e nemici che
c'era fuori: lì dentro tutti nemici di tutti. L'ha spiegato in un libro
straordinario e terribile, I sommersi e i salvati, dove ha raccontato con esempi
- i Sonderkommando e Chaim Rumkowski - la forza coercitiva del potere, il modo
attraverso cui corrompe l'animo umano. Quello che vorrei chiederle è come ha
fatto a scrivere al ritorno dalla deportazione, a ventisette anni, che il Lager
non era nient'altro che "una gigantesca esperienza biologica
sociale", come ha compreso che i nazisti non volevano solo sterminare
milioni di uomini, ma cambiare la definizione stessa di uomo? Ogni volta che
rileggo il suo primo libro mi colpiscono le quattro storie dei salvati che
racconta: Schepschel, Alfred L., Elias e Henri. Ma come è riuscito a catturare
sulla pagina il loro carattere, la loro volontà di sopravvivere a ogni costo
venendo a patti con il potere dei Kapos e delle SS? L'ha forse aiutato il suo
mestiere di chimico? In un suo articolo ha scritto di essere diventato chimico
per via del naso, per poterlo usare. Che sia stato proprio il fiuto a farle
capire gli uomini così bene e a raccontarli in modo così efficace? Vorrei
chiederle anche da cosa le deriva quella capacità di spiegare le piccole cose
d'uso quotidiano, e di risalire dai dettagli, dalle minuzie, alle questioni
generali. Si tratta di un aspetto che scaturisce dal suo carattere? Ha a che
fare con la natura schiva che i suoi amici, ad esempio Massimo Mila, le hanno
attribuito? In un suo articolo Mila ha scritto: "Cortese, affabile; ma con
quel suo fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti
vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma
che si lascia avvicinare poco". Ci si ritrova in questa descrizione? Non
so se Lei somiglia davvero a un camoscio, ma a vedere le sue foto in montagna,
arrampicato sulle rocce o sui tetti dei rifugi, lei sembra davvero un abitante
delle vette. Se riuscissi a bloccarla domani all'uscita dal portone, le
domanderei: se il suo primo libro, il resoconto del Lager, avesse avuto
successo, avrebbe fatto solo lo scrittore? O non è stato meglio guadagnarsi da
vivere come chimico, nonostante la fatica che le è costata passare la sera
dalla chimica alla scrittura? In fondo da quella attività alla Siva (Società
industriale vernici e affini), come dalla deportazione ad Auschwitz, Lei ha
tratto l'ispirazione per scrivere. Lo so che è difficile rispondermi, ma che
scrittore sarebbe stato senza l'esperienza nel campo di sterminio? Collegato a
questo c'è un'altra questione su cui vorrei un suo parere: non ha forse dovuto
subire per tanto tempo il ruolo di testimone, il fatto di essere il testimone
per eccellenza, prima dell'antifascismo e poi dell'Olocausto, lasciando così in
secondo piano la sua identità di scrittore? Questo non l'ha limitata nella sua
possibilità d'esprimersi come narratore? Una cosa che mi sorprende sempre è il
modo con cui le sembrano parlarle gli animali, cui ha prestato spesso la voce,
e anche le piante, le cose, gli oggetti in generale. Ho in mente un suo
articolo in cui racconta i marciapiedi di Torino e le gomme da masticare
spiccicate sui selciati, le loro qualità organolettiche e cinetiche. Mentre
cammina per strada cosa guarda? L'invidio sinceramente per questa sua capacità
di mettere a fuoco cose che gli altri non vedono. Non è forse proprio
quest'attenzione che dà forza a ciò che ha scritto sul Lager? E poi
l'attenzione rivolta agli oggetti del lavoro, come la chiave a stella, o alle
mani, nostro primo strumento? E ancora: come le è venuto in mente di criticare
Manzoni per i gesti sbagliati che fa Renzo nei Promessi sposi? Non era Manzoni
uno dei suoi maestri insieme al sommo poeta Dante? Già che ci sono, perché è
stata così importante per lei la cultura del liceo classico, non è forse lei
più un tecnico che non un umanista? Lo so che ha già risposto molte volte nelle
interviste, che non sono poche (ne ho contate oltre trecento, quasi tutte negli
ultimi quindici anni), tuttavia Lei ha parlato di sé come un uomo diviso, tra
chimica e letteratura, tra identità ebraica e italiana. Perché ha scelto
proprio la figura mitologica del Centauro per raccontare la sua natura doppia?
Non è il Centauro diviso piuttosto tra natura animale e natura umana? L'animale-uomo,
come lo chiama Lei, è quello che si rivela nel Lager, quando gli sperimentatori
nazisti hanno voluto capire "che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel
comportamento dell'animale-uomo nella lotta per la vita". Non siamo forse
noi tutti anche degli animali, e sempre in lotta, come diceva un altro suo
maestro Konrad Lorenz? Un'ultima cosa. Ho letto la lettera che ha scritto nel
novembre del 1945, appena tornato da Auschwitz, ai suoi parenti rifugiatisi in
Brasile nel 1938 dopo le leggi razziali, per raccontare quanto le era accaduto.
C'è una parte sull'Italia che mi ha molto colpito: "Quanto all'Italia,
forse qualcosa già sapete. La parte migliore della nostra generazione (nel
Nord: a Sud le cose si sono svolte diversamente) ha partecipato alla resistenza
contro i tedeschi e i neofascisti, poi alla guerra partigiana e
all'insurrezione dell'aprile '45. Com'è d'uso, i migliori sono scomparsi, e a
cose finite la scena è stata invasa dall'ambizione e dalla dubbia fede. Le
superstiti coscienze integre sono deluse: il fascismo ha
dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi ma non è
morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui
esso ha indotto il popolo. Fa freddo, c'è poco da mangiare, non si lavora;
fiorisce il banditismo, e mentre si parla di democrazia sociale, crescono
mostruosi nuovi capitalismi nati dal traffico nero: è l'aristocrazia più
antisociale". Fatte le debite differenze, sembra scritta oggi. Per questo,
caro Levi, credo che abbiamo ancora bisogno di Lei del suo sguardo. Proverò a
passare di nuovo sotto casa sua nelle prossime settimane nella speranza di
intercettarla. Uno come Lei non nasce tante volte in un secolo, e noi siamo
stati fortunati ad averla e possiamo continuare a leggerla ancora. Buon
centenario! Suo Marco Belpoliti
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