Da “Non è il
libero commercio che favorisce i lavoratori” di Alberto Bagnai, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” dell’1 di febbraio dell’anno 2017: I
dazi! I muri! Le guerre! L’avvento di Trump ha colto di sorpresa i
commentatori, cui sembra strano che, dopo trent’anni e passa di diminuzione
della quota salari, gli oppressi, non potendo cambiare musica, abbiano deciso
di cambiare almeno il suonatore. Ne è seguita una slavina di non sequitur i
quali, pur essendo esilaranti per gli addetti ai lavori, rischiano di essere
fuorvianti per il pubblico. Ne esemplifico qualcuno partendo dal dibattito,
civile e denso di contenuti, svoltosi lo scorso 23 gennaio su Sky fra Sandro
Trento e Claudio Borghi Aquilini. Si è spaziato da Davide Ricardo, l’economista
britannico che dopo le guerre napoleoniche si batté per l’abolizione dei dazi
sul grano, a Donald Trump, che ostenta ben altre intenzioni. Trento sostiene che
il libero commercio favorisca i lavoratori perché abbatte i prezzi dei prodotti
di consumo. Di converso, quindi, i poveri verrebbero danneggiati dai dazi. Lo
dimostrerebbe il fatto che nel XIX secolo “quando vengono aboliti i dazi
effettivamente il salario reale dei lavoratori in Inghilterra aumenta”. D’altra
parte, i dazi non danneggerebbero solo i salari negli Stati Uniti, ma anche i
redditi in Europa, perché “gli Stati Uniti hanno svolto in gran parte del
dopoguerra il ruolo di locomotiva dell’economia mondiale… tramite le
importazioni: comperavano prodotti dal resto del mondo e trascinavano la
crescita. Se gli Stati Uniti minacciano di smettere di fare questa politica il
messaggio è molto preoccupante, soprattutto per un continente come l’Europa che
non è in grado di crescere da solo”. Ecco, partiamo dalla fine. Sì, gli Stati
Uniti sono stati la locomotiva della crescita mondiale, proprio perché
acquistavano beni altrui (erano importatori netti). Le importazioni di un Paese
sono infatti reddito distribuito altrove. Ma se chi compra (importa) sostiene
la crescita altrui, chi vende (esporta) la deprime. Per questo motivo Adam
Smith definiva “beggar-thy-neighbour” (impoverisci il vicino) le politiche
mercantiliste, quelle dei Paesi che per crescere contano solo sulle
esportazioni. Ora, se gli Stati Uniti sono il motore della crescita mondiale
perché importano, come la mettiamo con l’evergreen dei guitti da talk show, la
storiella della Germania locomotiva dell’Europa perché “è competitiva” e quindi
esporta? Ovviamente hanno torto i guitti e ha ragione Trento, che
implicitamente chiarisce perché l’Europa “non è in grado di crescere”: lo
sarebbe se non fosse appesantita dal surplus commerciale tedesco, un surplus
che fa bene solo ai capitalisti tedeschi. Lo ha detto egregiamente Trento sul
blog del Fatto Quotidiano il 14 novembre 2012: con l’euro la Germania “ha messo
in gabbia temibili concorrenti” e la sua industria “scarica su tutta la
collettività il prezzo della propria competitività. Per favorire le vendite di
Bmw… è necessario anche… contenere i consumi interni”. Ed ecco il non sequitur:
a sentire Trento, sembra che chi vuole esportare debba impoverire i propri
operai (tecnicamente: “contenere” i loro consumi), e questo perché chi importa
possa arricchire i propri (offrendo loro beni a buon mercato). Le due storie
non stanno insieme, e per capire qual è quella giusta chiediamo aiuto ai dati.
Robert Allen (Oxford e New York University) ha ricostruito la serie del potere
d’acquisto degli operai inglesi dal 1770 al 1869. Fra il 1770 e il 1815 (data
in cui vennero adottati i dazi) la crescita media annua dei salari reali
inglesi fu dello 0,3% (un po’ come oggi in Italia); fra 1815 e 1846 (coi dazi)
fu dello 0,7% (più alta di 0,4 punti); aboliti i dazi, fra 1846 e 1869 fu dello
0.9% (più alta di soli 0,2 punti). Allen intitola il suo lavoro: “Il pessimismo
preservato”. Sì, l’idea ottimistica di Trento, secondo cui i potentati
economici, e gli economisti che se ne fanno cantori, avrebbero dickensianamente
a cuore le sorti degli umili, non regge. Ricardo, esponente della borghesia
industriale, voleva abolire i dazi per abbattere la rendita della nobiltà
terriera, non per aumentare il salario reale dei lavoratori, che infatti non
aumentò significativamente.
D’altra parte, per venire ai nostri giorni, se fosse vero che i poveri si arricchiscono comprando beni meno cari (cioè con la globalizzazione), anziché guadagnando di più (cioè tutelando i propri diritti, magari assistiti da un sindacato), dal 1989 al 2016, mentre la quota di importazioni cinesi sul totale passava dal 3% al 21%, la quota salari negli Stati Uniti sarebbe dovuta aumentare, e invece è scesa (dal 61% al 58%). Veniamo a noi: articolare il modello di crescita sulle esportazioni (cioè su un ammontare insostenibile di importazioni altrui) anziché su una espansione sostenibile dei consumi interni, come fa la Germania, significa negare i benefici del commercio. Creare un regime monetario nel quale la propria valuta è artificialmente sottovalutata significa infatti rendere più cari per i propri cittadini i prodotti altrui, cioè equivale a mettere un dazio. Per capirci: se avessero un marco forte come il loro Paese, i tedeschi in estate popolerebbero ancora l’Adriatico. Allora, prima di stracciarci le vesti sui dazi che Trump forse metterà, dovremmo interrogarci seriamente sul dazio che la “locomotiva” tedesca ci sta nei fatti imponendo da quasi venti anni. I prodotti esteri hanno tanti pregi, fra cui quello di costare poco, ma hanno un unico grosso difetto: creano lavoro all’estero. Riflettiamoci.
D’altra parte, per venire ai nostri giorni, se fosse vero che i poveri si arricchiscono comprando beni meno cari (cioè con la globalizzazione), anziché guadagnando di più (cioè tutelando i propri diritti, magari assistiti da un sindacato), dal 1989 al 2016, mentre la quota di importazioni cinesi sul totale passava dal 3% al 21%, la quota salari negli Stati Uniti sarebbe dovuta aumentare, e invece è scesa (dal 61% al 58%). Veniamo a noi: articolare il modello di crescita sulle esportazioni (cioè su un ammontare insostenibile di importazioni altrui) anziché su una espansione sostenibile dei consumi interni, come fa la Germania, significa negare i benefici del commercio. Creare un regime monetario nel quale la propria valuta è artificialmente sottovalutata significa infatti rendere più cari per i propri cittadini i prodotti altrui, cioè equivale a mettere un dazio. Per capirci: se avessero un marco forte come il loro Paese, i tedeschi in estate popolerebbero ancora l’Adriatico. Allora, prima di stracciarci le vesti sui dazi che Trump forse metterà, dovremmo interrogarci seriamente sul dazio che la “locomotiva” tedesca ci sta nei fatti imponendo da quasi venti anni. I prodotti esteri hanno tanti pregi, fra cui quello di costare poco, ma hanno un unico grosso difetto: creano lavoro all’estero. Riflettiamoci.
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