Da “PD, la
leccocrazia formato scimpanzè” di Pietrangelo Buttafuoco, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 31 di gennaio 2018: (…). Più che un partito, (…), il Partito
democratico che Renzi consegna al giudizio degli elettori è un branco; con lui
stesso nel ruolo di Elemento Alfa, e con gli altri al suo seguito, tutti
chiamati a stargli dietro, col muso appiccicato a pelo della sua stessa coda di
Capo. Il luogo dove stanno tutti, la polis, è diventato un posto per uomo solo
al comando. Una condizione a tal punto innaturale, quella dell’assolutismo, che
neppure il Papa – pur aiutato dallo Spirito Santo – riesce ad avere coi propri
cardinali, e però è uno status che la compilazione delle liste elettorali in
gara per il 4 marzo prossimo, seppure nella forma della caricatura, conclama.
Ed è una conferma più che sfacciata – questa della leccocrazia – quando i
candidati, ancorché miracolati per avere avuto un posto dal Capo, annullano
quell’idea stessa della pluralità, delle competenze, delle idee e anche quella
dei conflitti, sempre più necessari, attraverso cui un’identità si rigenera,
pronunciando voti di sempre più rovente fedeltà. Portatori di voti, sì, Renzi
se li prende. Alla corte dei fedelissimi, aggiunge la corte dei feudatari
locali, i vari De Luca, i D’Alfonso e i Sammartino. Portatori d’idee, giammai.
Più che un movimento di idee, di storie, di territori e di progetti, una piazza
d’arme di pedine a ranghi serrati in vista della più luccicante coda. Non Luigi
Manconi, non Ermete Realacci, non Nicola Latorre, non più politici, insomma,
tutti malauguratamente aristotelici. Niente meritocrazia, nessuna competenza.
Ma solo e soltanto i fedelissimi bravi a inghiottire qualunque cosa arrivi da quella
coda se la prova elettorale – già nel primo passaggio, farsi mettere in lista –
è ormai qualcosa a metà tra una sensalia e la lotteria. L’uomo si riconosce
dalla parola, il bue – invece – dalle corna. E ha ragione Rosario Crocetta
quando si sente buggerato da Renzi che per non candidarlo alle regionali in
Sicilia, gli promette di farlo barone a Roma – “ma che dico barone, duca conte,
anzi, principino regnante…” – e poi invece lo “posa” senza neppure rispondergli
più. Manco fosse, Matteo, il famoso scimpanzé, quello che acchiappa gli
esploratori nella boscaglia, quello che d’improvviso prende, possiede, travolge
e poi… e poi non parla, non chiama, non telefona e manco una cartolina manda.
Così fan tutti, si dirà. (…). Così s’è fatto, a volte. Al parco giochi del
berlusconismo, dove pure se ne sono viste di cotte e di crude – dove perfino
Nunzia De Girolamo, sgradita ai cacicchi di Purpetta, ha rischiato di essere
depennata dalle liste di Forza Italia – si aggiunge questo capitolo curioso
assai per ciò che fu il Pd. Un partito dove pure, sotto l’emblema di Falce e
Martello ebbe casa “il centralismo democratico”, dove il comunismo officiava la
propria dogmatica nel segno del “collettivismo” e che adesso si capovolge
nell’estetica della comitiva, l’opera buffa dei ragazzi del muretto reclutati
all’ombra del Giglio Magico, in una sorta di vendetta di chissà quale vecchia
talpa della storia. Magari quella che sullo Scudo Crociato democristiano
sovrappone la Fidelitas a Libertas, con Renzi proiettato nella dismissione di
qualunque complicazione che non comprenda il suo io-io-io, il famoso raglio con
cui la tracotanza tenta di cancellare il “noi” della politica. Lo scimpanzé che
prende possesso del territorio è quello che se li trascina, i gregari. E non
serve più la politologia per capirne, ma l’etologia, la scienza che studia il
comportamento degli animali per saperne di più degli uomini e di ciò che capita
loro in assenza di libertà e spirito critico. Il quadrupede al comando si
lascia annusare il popò e non servono meriti nell’agoràdel branco. Ma solo e
soltanto fedeltà. Pronta a essere barattata nel momento stesso in cui il capo
inciampa. E sempre inciampa, il capo. Manco fosse, il famoso scimpanzé.
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