“Fuffa”.
“Ciarpame,
roba che non vale niente; argomentazione ingannevole o inconsistente regionalismo
lombardo, probabilmente derivato da fuffigno, che in Toscana ha valore di
'garbuglio di fili'. Questa voce lombarda, negli ultimi decenni, si è
guadagnata una meritata ribalta nazionale. La fuffa, dapprima probabilmente derivata da 'fuffigno', cioè
garbuglio di fili e tessuti, o secondo altri addirittura con un'origine
espressiva che descriverebbe un ammasso leggero - indica il ciarpame, roba
dozzinale e completamente priva di valore. Può quindi, propriamente, rivelarsi
fuffa il prestigioso regalo che ci ha fatto l'amico, l'eredità del prozio può
consistere in fuffa, e la soffitta è stipata di fuffa. Ma determinante è il
valore figurato di questa parola: la fuffa è il discorso privo di valore, il
luogo comune, l'argomentazione inconsistente. Si può commentare un articolo
dicendo che è pura fuffa, una critica può essere tutta fuffa a parte un paio di
punti, e non sapendo dare una risposta, si risponderà con della robusta fuffa. Una
parola buffa, piacevole e vigorosa, che dà un bel colore alla frase”.
Parola pubblicata l’11 di agosto dell’anno 2015 su https://unaparolaalgiorno.it/.
Da “Renzi, la grande truffa della fine
del precariato” di Salvatore Cannavò, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 22 di febbraio dell’anno 2015: L’ottimismo di Matteo Renzi è quello di un
illusionista. Il “giorno atteso da un’intera generazione”, modo con cui il
premier ha salutato il varo del Jobs Act, potrebbe essere solo un giorno come
tanti vista la scarsa efficacia delle norme approvate venerdì scorso dal
Consiglio dei ministri. La “rottamazione” dei Cocopro, la sintesi mediatica del
provvedimento, potrebbe essere una parola vuota con scarsi se non nulli effetti
sulla precarietà del lavoro. E anche la stima di “200 mila lavoratori che passeranno
da contratti precari alla stabilità” rischia di trasformarsi in un mito. Se non
in una bufala. (…).
Appare anche molto forzata la pretesa del ministro Giuliano Poletti di aver introdotto l’assunzione a tempo indeterminato come la forma “normale” dei rapporti di lavoro. Questa idea aveva animato anche la ministra Elsa Fornero che per prima aveva cercato di rimettere mano alle decine di tipologie che regolano i contratti di lavoro. La sua legge del 2012, infatti, stabilisce, come il Jobs Act varato l’altro ieri, che il rapporto subordinato a tempo indeterminato è la forma “comune”. Ma scrivere questo auspicio sulla carta di un testo di legge non basta. La precarietà del lavoro, infatti, non è questione legata principalmente ai contratti a progetto o ai famigerati co.co.co. Gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps, ad esempio, superano il milione; ci sono le partite Iva e Poletti si è ben guardato dal cancellare altre forme di lavoro come quello intermittente, quello accessorio, l’apprendistato,etc. A essere fondamentali,però, sono i contratti a tempo determinato: 2,3 milioni contro le 500 mila collaborazioni circa. Se si prende il numero dei contratti attivati nel terzo trimestre del 2014, a fronte di 1.728.662 contratti a tempo determinato, il 69,8% del totale, sono state attivate 155 mila collaborazioni, il 6,2%. I dati, inoltre, indicano che la durata media dei contratti a tempo si è accorciata, specialmente nel periodo di crisi. (…). Renzi promette ora che i co.co.pro. si tradurranno in rapporti di lavoro stabili grazie al nuovo contratto a tutele crescenti. Leggendo il testo, però, si capisce quanto la cosa sia difficile. L’articolo 47, con il quale si stabilisce la “riconduzione al lavoro subordinato” stabilisce che “a far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Il primo ostacolo è dato dalle deroghe previste dal comma 2: non rientreranno in quella ipotesi, infatti, le collaborazioni disciplinate dai contratti collettivi nazionali come ad esempio il settore dei call center (circa 80 mila addetti per lo più a progetto). Restano fuori dal lavoro subordinato anche le collaborazioni relative all’obbligo di iscrizione ad appositi albi: ad esempio i giornalisti, dove ci sono circa 20 mila situazioni di questo tipo. Fuori anche gli amministratori di società e i sindaci di controllo che, complessivamente, ammontano a oltre 500 mila unità (per lo più partite Iva o altre figure).Infine, oltre alle prestazioni di lavoro in favore di associazioni sportive dilettantistiche, sono fuori anche i circa 50 mila collaboratori della Pubblica amministrazione. Una fetta cospicua dei collaboratori, dunque, non rientra nella nuova disciplina e si vedrà applicato ancora il contratto di collaborazione. In secondo luogo, la legge non prevede alcun vincolo al passaggio limitandosi ad affermare che a gennaio 2016 “si applica” la disciplina. (…). Nulla si dice sui contratti che saranno cessati nel corso del 2015 tranne prevedere una bella sanatoria per quelle aziende che attiveranno un rapporto subordinato e potranno, così, cancellare tutte le “possibili pretese” dei lavoratori. Che ilpassaggio da contratto a progetto a lavoro subordinato non sia così automatico è dimostrabile anche con altri due dati. Il primo: anche la legge Fornero, irrigidendo la normativa, si proponeva di farne emergere la natura di rapporto subordinato. Il risultato è stato che nel 2013 il numero dei contratti a progetto si è ridotto di 150 mila unità senza nessun beneficio per i rapporti a tempo indeterminato. Il secondo dato è più sottile ma molto rilevante: secondo l’Osservatorio dei lavori, infatti, il reddito medio dei co.co.pro. è di 10 mila euro l’anno. Una cifra che corrisponde, quando va bene, a un normale contratto di lavoro a tempo parziale. Come è possibile pensare che questi importi possano dare vita a lavori stabili? Abolendo il contratto a progetto, in realtà, a crescere, come già avvenuto negli ultimi anni, sarà il contratto a tempo determinato. Non è un caso che tra il 2011 e il 2014, confrontando le attivazioni trimestre su trimestre, la crescita sia stata del 15%. Ma potranno crescere anche le partite Iva, false o vere che siano, e per le quali il decreto appena inviato alle Camera non prevede alcuna definizione. Quello che sposta il ragionamento a favore di Renzi è che il contratto a tempo indeterminato, per i prossimi tre anni, godrà di una decontribuzione che può arrivare fino a 8.600 euro per ogni lavoratore. Una bella occasione per le imprese che, dove possibile, ne approfitteranno senz’altro. Ma quando i soldi pubblici saranno finiti, i nodi verranno al pettine.
Appare anche molto forzata la pretesa del ministro Giuliano Poletti di aver introdotto l’assunzione a tempo indeterminato come la forma “normale” dei rapporti di lavoro. Questa idea aveva animato anche la ministra Elsa Fornero che per prima aveva cercato di rimettere mano alle decine di tipologie che regolano i contratti di lavoro. La sua legge del 2012, infatti, stabilisce, come il Jobs Act varato l’altro ieri, che il rapporto subordinato a tempo indeterminato è la forma “comune”. Ma scrivere questo auspicio sulla carta di un testo di legge non basta. La precarietà del lavoro, infatti, non è questione legata principalmente ai contratti a progetto o ai famigerati co.co.co. Gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps, ad esempio, superano il milione; ci sono le partite Iva e Poletti si è ben guardato dal cancellare altre forme di lavoro come quello intermittente, quello accessorio, l’apprendistato,etc. A essere fondamentali,però, sono i contratti a tempo determinato: 2,3 milioni contro le 500 mila collaborazioni circa. Se si prende il numero dei contratti attivati nel terzo trimestre del 2014, a fronte di 1.728.662 contratti a tempo determinato, il 69,8% del totale, sono state attivate 155 mila collaborazioni, il 6,2%. I dati, inoltre, indicano che la durata media dei contratti a tempo si è accorciata, specialmente nel periodo di crisi. (…). Renzi promette ora che i co.co.pro. si tradurranno in rapporti di lavoro stabili grazie al nuovo contratto a tutele crescenti. Leggendo il testo, però, si capisce quanto la cosa sia difficile. L’articolo 47, con il quale si stabilisce la “riconduzione al lavoro subordinato” stabilisce che “a far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Il primo ostacolo è dato dalle deroghe previste dal comma 2: non rientreranno in quella ipotesi, infatti, le collaborazioni disciplinate dai contratti collettivi nazionali come ad esempio il settore dei call center (circa 80 mila addetti per lo più a progetto). Restano fuori dal lavoro subordinato anche le collaborazioni relative all’obbligo di iscrizione ad appositi albi: ad esempio i giornalisti, dove ci sono circa 20 mila situazioni di questo tipo. Fuori anche gli amministratori di società e i sindaci di controllo che, complessivamente, ammontano a oltre 500 mila unità (per lo più partite Iva o altre figure).Infine, oltre alle prestazioni di lavoro in favore di associazioni sportive dilettantistiche, sono fuori anche i circa 50 mila collaboratori della Pubblica amministrazione. Una fetta cospicua dei collaboratori, dunque, non rientra nella nuova disciplina e si vedrà applicato ancora il contratto di collaborazione. In secondo luogo, la legge non prevede alcun vincolo al passaggio limitandosi ad affermare che a gennaio 2016 “si applica” la disciplina. (…). Nulla si dice sui contratti che saranno cessati nel corso del 2015 tranne prevedere una bella sanatoria per quelle aziende che attiveranno un rapporto subordinato e potranno, così, cancellare tutte le “possibili pretese” dei lavoratori. Che ilpassaggio da contratto a progetto a lavoro subordinato non sia così automatico è dimostrabile anche con altri due dati. Il primo: anche la legge Fornero, irrigidendo la normativa, si proponeva di farne emergere la natura di rapporto subordinato. Il risultato è stato che nel 2013 il numero dei contratti a progetto si è ridotto di 150 mila unità senza nessun beneficio per i rapporti a tempo indeterminato. Il secondo dato è più sottile ma molto rilevante: secondo l’Osservatorio dei lavori, infatti, il reddito medio dei co.co.pro. è di 10 mila euro l’anno. Una cifra che corrisponde, quando va bene, a un normale contratto di lavoro a tempo parziale. Come è possibile pensare che questi importi possano dare vita a lavori stabili? Abolendo il contratto a progetto, in realtà, a crescere, come già avvenuto negli ultimi anni, sarà il contratto a tempo determinato. Non è un caso che tra il 2011 e il 2014, confrontando le attivazioni trimestre su trimestre, la crescita sia stata del 15%. Ma potranno crescere anche le partite Iva, false o vere che siano, e per le quali il decreto appena inviato alle Camera non prevede alcuna definizione. Quello che sposta il ragionamento a favore di Renzi è che il contratto a tempo indeterminato, per i prossimi tre anni, godrà di una decontribuzione che può arrivare fino a 8.600 euro per ogni lavoratore. Una bella occasione per le imprese che, dove possibile, ne approfitteranno senz’altro. Ma quando i soldi pubblici saranno finiti, i nodi verranno al pettine.
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