"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 12 febbraio 2018

Sfogliature. 90 “Cicciu Giufà e le rappresentazioni dal bel paese”.



A lato. "Il promontorio di Capo d'Orlando" di Willem Schellinks (1664), conservato nella Biblioteca nazionale di Vienna.

A mo’ di introduzione a questa “sfogliatura” che è del 5 di agosto dell’anno 2006, un sabato da solleone certamente, come si conviene alla nobile terra di Sicilia, “sfogliatura” che è come una breve antologia del pensiero del sociologo Raffaele Simone, antologia non certo esaustiva per ciò che gli abitatori del bel paese sono od appaiono, ché sempre hanno serbato sorprese nel corso della loro storia millenaria, mi corre l’obbligo di rendere omaggio ad un Uomo di quella nobile terra che al secolo fa Giuseppe Sicari la cui amicizia mi lusinga e che mi è cara assai. E ritengo di rendergli l’omaggio più caro e più vero prendendo brevissimamente dalla Sua ultima fatica letteraria – “La nave di sale” (2017), Pungitopo editore, pagg. 196, € 17 – laddove presenta il Suo Cicciu Giufà (pag. 92): “Era un uomo senza età, imprevedibile e sentenzioso, a volte sventato, birichino e un po’ sciocco, altre volte saggio e prudente come un vecchio. Saggio? Certamente, anche se in molti lo ritenevano soltanto un fessacchiotto. Perché? Perché credeva nella giustizia, nelle regole, nella difesa dei deboli e nell’uguaglianza degli uomini. Una specie di rivoluzionario di quei tempi, insomma”. Finisce qui il mio sentito omaggio a Giuseppe Sicari ed alla Sua fatica letteraria che si legge d’un fiato e che vuole di certo rappresentare quella varia umanità che abita la nobile terra di Sicilia e che forse può ben rappresentare quell’umanità tutta che abita il bel paese. Quella stessa umanità che a suo tempo rappresentò magistralmente Raffaele Simone nel Suo lavoro “Il paese del pressappoco” (2007) -  Garzanti Libri Collana: Gli elefanti. Saggi. Pagine 236, Brossura EAN: 9788811680581 - del quale lavoro offro di seguito una breve degustazione al fine di quel dilettevole esercizio di ricerca, negli uomini d’oggigiorno, di un Cicciu Giufà di comune conoscenza. Se ne rinvengono oggigiorno? Forse pochi, certissimamente pochissimi, che si tengono ben nascosti e lontani assai dalla calca tonitruante del bel paese proprio per non passare per “fessacchiotti” demodé. “Fessacchiotti” o meglio ancora “gufi”, o “professoroni” o quant’altro l’armamentario di coloro che non sanno ma fanno ha potuto produrre nel corso di questo inizio di millennio. Ed ora la parola alla “sfogliatura” del giorno: Giunge così a termine la piacevolissima fatica di trascrivere, dal pregevolissimo lavoro di Raffaele Simone “Il paese del pressappoco”, le pagine che più sono state capaci di rivelazioni e riflessioni ad un lettore sprovveduto quale io mi ritengo, pagine importanti per focalizzare e delineare al meglio quel latente ed endemico fattore del “Mal d’Italia” che, come tutti i fattori patogeni in tutti i sani portatori delle patologie più varie, ha bisogno di essere ben tenuto sotto strettissima osservazione e doverosa sorveglianza, affinché non abbia a determinare gravi danni e sciagure ai suoi incolpevoli ospiti.
Ebbene, anche queste ultime paginette pazientemente trascritte ritrovano un pronto riscontro nelle vicissitudini politiche più recenti, ovvero nelle tortuose vicende politico-istituzionali dei giorni torridi dell’indulto ed altro ancora, come per dire che l’analisi fatta in precedenza dall’esimio Autore ha trovato inoppugnabile conferma sul campo. Ringrazio l’Autore per le profonde riflessioni indotte e non me ne abbia per come sia riuscito a tagliuzzare, e non volendolo proprio, a snaturare il suo pregevolissimo lavoro, che merita tutto d’essere letto con grande attenzione. Una chiosa finale. Dovrebbe essere  il primato o la preoccupazione principale della politica vera se da essa venisse costantemente e pedagogicamente osservato, sorvegliato e doverosamente isolato il fattore latente del “Mal d’Italia”. Vana speranza in verità, essendo la politica del bel paese, su di tutti i fronti, abbondantemente posseduta ed infettata dal fattore in questione. A tal proposito, una attenta lettura merita il quadro secondo: non è tutto vero ciò che vi è scritto, anche alla luce delle vicissitudini politico-parlamentari del bel paese dei giorni passati, di quelli presenti, e perché no, anche di quelli futuri? E come suol dirsi, ai posteri l’ardua sentenza! Quadro primo. Dal capitolo trentaduesimo “Il disprezzo verso altrui”: (...). “Come viene viene” è una potente formula popolare, che va ad arricchire la raccolta di espressioni che usiamo per indicare l’approssimativo, il rabberciato, il rimediato, il fatto male. La formula ha molti sinonimi: “alla carlona”, “alla garibaldina”, “alla meglio”, oppure – (…) – “all’italiana”! Tutte alludono a un dovere eseguito senza passione né cura, tanto per farlo ma senza nessuna speciale sollecitudine per la qualità dell’esito. Purtroppo nel mondo abbiamo esattamente la reputazione corrispondente: tolti alcuni campi in cui eccelliamo per tradizione, all’Italia e agli italiani si associa spesso un’idea di impreciso, di approssimativo e di generico, una fama inveterata di gente poco puntuale, poco capace di mantenere la parola, i cui prodotti funzionano maluccio, i cui servizi arrancano, che tende a scegliere la soluzione che richiede il maggior tempo, la procedura più bizantina, amante dei rinvii e delle proroghe … (…). Quadro secondo. Dal capitolo trentaquattresimo “Sic et non”: (…). Il pressappochismo si osserva non solo nell’orizzonte degli oggetti materiali, come ho detto, ma anche, in modo metaforico ma pesante, in quello delle relazioni tra le persone e della qualità delle decisioni. Alludo al fatto che da noi sembrano impossibili sia la vera fermezza (il cui principio è sic et non “questo sì, questo no”) sia il vero conflitto. L’una e l’altro sono infatti temperati dalla perpetua possibilità di mediazione, di una sfumatura e di un’intesa, e creano così le premesse di quei paradigmi che chiamiamo trasformismo e consociativismo. Entrambe queste tendenze sono la manifestazione politica di un cocktail di proprietà del nostro carattere: lo scarso rispetto dei limiti, la tendenza ad “aggiustare” i conflitti, l’anarco-servilismo, il perdonismo, la speranza nell’immunità e nell’impunità, una certa inesprimibile pigrizia dinanzi alle fatiche che comporta la fermezza… In nome di questi fattori, a che serve tenere una posizione in modo rigoroso, anche a costo di esporsi e di “rimetterci di tasca propria”? Meglio mettersi d’accordo con la controparte, stabilire accordi “programmatici, non politici” ( termini tecnici del gergo politico ), “convergenze parallele”, fare comunella o maturare altre forme d’intesa con il nemico fondata sullo scambio di favori e di prestazioni. è stato osservato acutamente che il consociativismo è la “maniera cattolico-barocca” di far politica. È “cattolica” perché, alla maniera dei credenti, non vede nemici da nessuna parte, anzi non è capace di concepire avversari: siamo tutti esseri umani destinati a soffrire, tutti navighiamo nella stessa barca: quindi a che servono i contrasti? Tanto vale mettersi d’accordo e vivere in pace. Una sorta di generico irenismo oltremondano ( che si declina però sotto forma di estremo cinismo ) si distende su tutte le tensioni. Ed è “barocca” perché induce a temerarie acrobazie logiche di  evitare di essere severi o intransigenti, di dover dire “no” a qualcosa o qualcuno. Gli intransigenti sono persone disposte a sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono o per il giudizio che hanno maturato. In Italia, però, non c’è nulla di meno apprezzato di una persona veramente ferma. “Povero scemo” è il parere che si insinua nelle menti più diverse ( a volte, lo ammetto, anche nella mia ) quando si sente raccontare di una persona che, a forza di intransigenza, si è messa nei guai o ha corso dei rischi, “non ha capito niente della vita”.L’intransigenza non appartiene al carattere degli italiani”, ha spiegato infatti sconsolatamente Bobbio: “Gli intransigenti sono rari, sono un’élite”. “Se no, no!”, come dice Mazzini. Da questo punto di vista, Gobetti è stato un bell’esempio. Lo stato italiano non lo è. (…).”. Quadro terzo. Dal capitolo trentacinquesimo “Grattacieli a Venezia”: (…). Si fanno aeroporti, autostrade, passanti ferroviari, ponti, cioè opere in cui non c’è niente di bello, nulla almeno che possa davvero attrarre i cittadini o incrementarne l’esperienza. Per le nostre plebi trasformate di scatto in burguesìa compradora e nutrite da quella che a La Capria pare una “modernità insolente”, la “nuova bellezza” si manifesta nei volumi e nelle decorazioni dei centri commerciali, dei discount, dei factory outlet, delle “grandi stazioni” diventate fittizio luogo d’incontro, delle discoteche e degli zoo-safari: insomma nel vasto desolante catalogo di dei non luoghi della modernità di massa, dissipativi e captive, del falso che avanza col rischio di travolgerci. (…). La via è stata già imboccata. Alludo alle norme recenti ( risalgono al 2002 ) che riconoscono la possibilità, sia pur circostanziata, di vendere porzioni di patrimonio pubblico. A ciò si aggiunge una spettacolare serie di sanatorie di abusi edilizi e urbanistici. Quello è il segnale normativo, ma gli italiani non avevano davvero bisogno di aspettare una legge. Quella via l’avevano già scelta da soli, e da decenni: coste rovinate, meravigliose città lasciate al degrado, mari pieni di lordure, ville e giardini spelati e luridi, città lacerate dal fracasso, natura offesa, valli prealpine sconciate da rugginosi impianti industriali, le alte quote rovinate da impianti di risalita… In un paese senz’alleanza la conservazione della bellezza può essere un fastidio, una pena, “una rovina”, una limitazione della libertà d’intrapresa, una costrizione insopportabile. È la storia, con o senza ufficiali dell’ornato, che è riuscita a evitare che “a Venezia (…) ci (fossero) i grattacieli”. Di questo eccezionale beneficio non ci accorgiamo nemmeno (non ci avvediamo di quanto sia importante l’aria finché non comincia a scarseggiare), ma ne godiamo pur sempre. Ci riusciremo ancora a lungo? 

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