Da “Elogio
(impopolare) della libera Europa” di Emanuele Felice, pubblicato sul settimanale
“L’Espresso” del 28 gennaio 2018: Josef Felder era un deputato
socialdemocratico di appena 32 anni, quando nel parlamento tedesco votò contro
i pieni poteri a Hitler. Il 24 marzo 1933, giorno della fine della repubblica
di Weimar. Per quel voto Felder fu rinchiuso nel campo di concentramento di
Dachau, il primo ad aprire nella Germania nazista, al cui ingresso campeggiava
la celebre scritta «Il lavoro rende liberi». Fu tenuto in catene in una cella
di isolamento. I nazisti gli davano da mangiare solo una volta ogni quattro
giorni. Per caso, una di quelle volte venne a coincidere con la vigilia di
Natale. Quella sera una guardia aprì la finestrella della cella, gli fece
vedere un piatto di salsicce bavaresi, con insalata di patate. Disse «questa
sarebbe proprio una bella cena di Natale. Ma tu non la meriti, perché sei un
traditore». Poco dopo arrivò il comandante delle guardie, portando una corda. E
mostrò al prigioniero come avrebbe potuto impiccarsi, dalle condutture del
soffitto. «Controllerò che tu lo faccia», disse. Ritornò altre due volte quella
notte, per spingerlo al suicidio. Ma Felder non si impiccò. Sarebbe uscito vivo
da Dachau. E poi sarebbe sopravvissuto anche alla guerra fredda. Morirà nel
2000, a cento anni di età. Farà in tempo a vedere il suo paese riunificato,
prospero, democratico. Farà in tempo a vedere l’Unione Europea, il sogno di un
continente pacificato, divenire realtà. E l’idea socialdemocratica per cui
lottava, quell’idea di una sinistra antitotalitaria che lo contrapponeva ai
nazisti ma a quel tempo anche ai comunisti, contribuire a forgiare le
istituzioni e la politica europee, assieme alla cultura cristiano-democratica e
a quella liberale. Josef Felder può essere considerato un eroe della sinistra
riformista, ma più in generale un eroe della democrazia. Pronto a dare la vita
per le sue idee, ma al contempo a quella vita attaccato tenacemente, pur nella
disperazione, fino all’ultimo. E la sua è una storia a lieto fine. Come è a
lieto fine, a tutt’oggi almeno, la storia della Germania e dell’Europa. (…). Esattamente
cento anni fa, l’Europa era impantanata nella prima guerra mondiale: nelle
trincee del fronte occidentale si uccidevano milioni di francesi e tedeschi.
Oggi il legame fra i due principali paesi europei è talmente saldo da sembrare
indissolubile, e quegli immensi campi di croci appaiono a tutti davvero
un’«inutile strage» – e lo stesso vale per i trecentomila italiani morti
sull’Isonzo. Ma l’Italia come si pone di fronte al rilancio dell’Europa? Il
parlamento che uscirà dalle elezioni di marzo sarà chiamato a confrontarsi
innanzitutto su questa sfida. Da noi però se ne parla poco, anzi non se ne
parla affatto. Prevale nei confronti dell’Europa un sentimento di generale
sfiducia, se non di aperta ostilità. Sul piano economico, molti imputano
all’euro il declino degli ultimi anni. Curioso transfer di responsabilità,
quando tutti gli altri paesi che hanno la stessa moneta (tutti, nessuno
escluso) sono cresciuti più di noi: è illogico, oltre che autoreferenziale,
dare la colpa di un record negativo a quello che abbiamo in comune con gli
altri (la moneta), anziché a quello che ce ne separa (il peggior funzionamento
della pubblica amministrazione e della giustizia, i minori investimenti in
istruzione e ricerca, il familismo delle imprese: per fare tre esempi). Ma si
sa, additare l’euro auto-assolve gli imprenditori e la classe politica, auto-assolve
anche gli elettori che l’hanno votata. E pazienza se così facendo ci teniamo i
nostri mali. E tuttavia il discorso sull’Europa, per una politica che sia degna
di questo nome, non può ridursi nemmeno solo alla moneta unica, o al mero dato
economico. Fra i benefici si potrebbero annoverare le norme a difesa dei
consumatori e a tutela dell’ambiente, la libera circolazione dei lavoratori,
fino alle recenti conquiste per le persone omosessuali (la legge Cirinnà è
stata approvata per colmare un vulnus nei diritti umani che le istituzioni
europee ci rimproveravano). Senza l’Europa l’Italia sarebbe probabilmente un
paese più ingessato e arretrato. Meno libero, non più libero. Forse anche meno
democratico. Perché poi c’è un altro aspetto, ideale ma anche concreto, che
deve essere valorizzato: pur con tutti i suoi limiti, l’Unione Europea
rappresenta la più avanzata frontiera di difesa della democrazia che vi sia
oggi nel mondo. Per sua stessa natura: un esperimento di fratellanza fra i
popoli che non ha paragoni in tutta la storia umana. E poi per quello che fa.
Con rare eccezioni, i popoli prima si erano sempre uniti attraverso la
violenza, cioè per conquista o sotto la minaccia delle armi, o al più grazie a
qualche matrimonio dinastico. Negli ultimi sessant’anni, a poco a poco sempre
più paesi, tanti da formare quasi un continente, si sono messi insieme:
volontariamente, e democraticamente, decidendo di condividere sovranità e
destini. Insieme, hanno dato vita a quella che è oggi la regione del mondo a più
alto sviluppo umano: non solo il reddito, ma anche la salute, l’istruzione, i
diritti sociali e le libertà civili; l’ambiente e perfino (almeno de jure) i
diritti degli animali.
Queste conquiste non sono affatto scontate. Negli ultimi anni diverse nazioni nel mondo, alcune ai nostri confini (la Turchia, la Russia), stanno tornando indietro sui diritti umani. Perfino in alcuni stati europei vi è questo rischio, ma contro la loro involuzione autoritaria si sono frapposte le istituzioni europee. Il caso più importante riguarda la Polonia, che con i suoi quasi 40 milioni di abitanti è il principale paese dell’Est. Uno dei principi cardine di ogni costituzione democratica è la separazione dei poteri: questa peraltro garantisce che chi vota contro il governo, come fece Josef Felder nel 1933, non finisca in prigione. Ebbene, a partire dall’ottobre 2015, ma poi soprattutto nel corso del 2017, il partito nazionalista polacco al governo ha approvato una serie di leggi che limitano fortemente l’autonomia del potere giudiziario, e anche quella dei media, subordinandola all’esecutivo. Gli oppositori polacchi le hanno paragonate alle misure introdotte nella Germania nazista; ma sono stati sconfitti. A fine 2017 la Commissione europea è venuta in loro soccorso: dopo avere a lungo invitato il governo polacco a ripensarci, ha deciso di avviare le procedure previste dall’articolo 7 del Trattato sull’Unione, che prevedono per la Polonia sanzioni fino alla sospensione del diritto di voto (mentre rimangono tutti i doveri). È un passo senza precedenti nella storia delle istituzioni comuni, (…): per la prima volta l’Unione Europea si fa garante del rispetto dei suoi valori fondamentali, in ciascuno degli stati membri. Questi valori, inscritti nel Trattato, sono la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e la democrazia; in una parola i diritti umani (articolo 2). Da ora in avanti non saranno più considerati solo un affare interno agli stati. La loro osservanza interpella tutti i cittadini dell’Unione. Certo, sono procedure lunghe e complesse. Ma questa è la regola della democrazia, dello stato di diritto. Altra via non c’è: la faticosa ricerca del consenso. Non è un caso che il discredito per l’Europa si accompagni, anche da noi, all’insofferenza per la democrazia in quanto tale. Il parlamento sarebbe «un’aula sorda e grigia», dove inevitabilmente regnano il compromesso e la doppia morale. Questa rappresentazione è falsa, va contrastata in Italia e in Europa. Il luogo della democrazia è uno spazio aperto, certo non perfetto, ma accogliente e diciamolo, per certi aspetti anche luminoso. Dove si possono trovare autentici giganti, pronti a lottare con tutte le forze contro la barbarie, e che hanno contribuito a rendere la nostra vita migliore. Storie a lieto fine, come quella di Josef Felder, di Sandro Pertini (fra tutti) per l’Italia. Oppure tragiche: si pensi a Piero Gobetti, ai fratelli Rosselli; o alle migliaia di oppositori a Hitler, tedeschi, uccisi dal nazismo. Dovremmo ricordarcene più spesso, anche in campagna elettorale. Di quello che eravamo e di quello che siamo diventati. Di come ci siamo arrivati. E delle vere, grandi sfide che abbiamo davanti.
Queste conquiste non sono affatto scontate. Negli ultimi anni diverse nazioni nel mondo, alcune ai nostri confini (la Turchia, la Russia), stanno tornando indietro sui diritti umani. Perfino in alcuni stati europei vi è questo rischio, ma contro la loro involuzione autoritaria si sono frapposte le istituzioni europee. Il caso più importante riguarda la Polonia, che con i suoi quasi 40 milioni di abitanti è il principale paese dell’Est. Uno dei principi cardine di ogni costituzione democratica è la separazione dei poteri: questa peraltro garantisce che chi vota contro il governo, come fece Josef Felder nel 1933, non finisca in prigione. Ebbene, a partire dall’ottobre 2015, ma poi soprattutto nel corso del 2017, il partito nazionalista polacco al governo ha approvato una serie di leggi che limitano fortemente l’autonomia del potere giudiziario, e anche quella dei media, subordinandola all’esecutivo. Gli oppositori polacchi le hanno paragonate alle misure introdotte nella Germania nazista; ma sono stati sconfitti. A fine 2017 la Commissione europea è venuta in loro soccorso: dopo avere a lungo invitato il governo polacco a ripensarci, ha deciso di avviare le procedure previste dall’articolo 7 del Trattato sull’Unione, che prevedono per la Polonia sanzioni fino alla sospensione del diritto di voto (mentre rimangono tutti i doveri). È un passo senza precedenti nella storia delle istituzioni comuni, (…): per la prima volta l’Unione Europea si fa garante del rispetto dei suoi valori fondamentali, in ciascuno degli stati membri. Questi valori, inscritti nel Trattato, sono la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e la democrazia; in una parola i diritti umani (articolo 2). Da ora in avanti non saranno più considerati solo un affare interno agli stati. La loro osservanza interpella tutti i cittadini dell’Unione. Certo, sono procedure lunghe e complesse. Ma questa è la regola della democrazia, dello stato di diritto. Altra via non c’è: la faticosa ricerca del consenso. Non è un caso che il discredito per l’Europa si accompagni, anche da noi, all’insofferenza per la democrazia in quanto tale. Il parlamento sarebbe «un’aula sorda e grigia», dove inevitabilmente regnano il compromesso e la doppia morale. Questa rappresentazione è falsa, va contrastata in Italia e in Europa. Il luogo della democrazia è uno spazio aperto, certo non perfetto, ma accogliente e diciamolo, per certi aspetti anche luminoso. Dove si possono trovare autentici giganti, pronti a lottare con tutte le forze contro la barbarie, e che hanno contribuito a rendere la nostra vita migliore. Storie a lieto fine, come quella di Josef Felder, di Sandro Pertini (fra tutti) per l’Italia. Oppure tragiche: si pensi a Piero Gobetti, ai fratelli Rosselli; o alle migliaia di oppositori a Hitler, tedeschi, uccisi dal nazismo. Dovremmo ricordarcene più spesso, anche in campagna elettorale. Di quello che eravamo e di quello che siamo diventati. Di come ci siamo arrivati. E delle vere, grandi sfide che abbiamo davanti.
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