Sono riuscito – finalmente - a (ri)vedere
su DVD il bellissimo film “Cosmonauta” della
regista – al tempo del Suo lavoro, regista esordiente - Susanna Nicchiarelli.
Film delicato e dall’intreccio sorprendente, tanto da avere incantato la platea
di Venezia in quell’anno 2009 – un’era addietro appena - e di aver vinto a mani
basse il premio per la sezione “Controcampo italiano”. Lo segnalo e lo
raccomando ancora tutt’oggi per rischiarare un orizzonte reso oscuro assai mentre
langue una campagna elettorale delle più insignificanti e rozze. Con una
precisazione opportuna e doverosa per i non addetti ai lavori: chi all’epoca
dei fatti rappresentati – dal 1957
in poi - non avesse ancora messo piede su questo angolo
d’universo chiamato Terra, ben poche emozioni ne potrà cogliere dalla visione
del film. Altrimenti, è tutto un susseguirsi di emozioni e di nostalgie.
Poiché lo scenario storico – a confronto i questa nostra contemporaneità senza progetti, senza un futuro accettabile da intravvedere, scandalosa assai - rappresentato nel magnifico lavoro cinematografico è quello della contrapposizione dura e pura tra l’Occidente, capitalista e consumista a quegli albori, e l’Oriente, rappresentato, almeno a quel tempo ché la Cina era ancora lontana, dalla esperienza e dalla speranza, per altri milioni e milioni di uomini e donne di tutto il pianeta, dell’esperimento in atto in quella che è stata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ed in quello scenario delineato nel film la gara tra i due contrapposti schieramenti, le due superpotenze appunto, con l’iniziale vantaggio conseguito dalla ricerca sovietica nella esplorazione dello spazio. E ritornano, tra le bellissime immagini del film, gli interessanti e splendidi spezzoni televisivi, della televisione di allora, di quella televisione che definirei “ingenua”, a documentare lo sforzo di quegli uomini per vincere una gara con i più ricchi avversari. Il compagno Gagarin cosmonauta, la cagnetta Laika, è tutto un rincorrersi di ricordi, di carissime memorie. E di grandi, grandissime illusioni. E delusioni. E sullo sfondo storico la storia di Luciana, ancora una bimba nel racconto iniziale del film, divenuta un’adolescente nel prosieguo della storia, che arriva alla vita segnata dal dolore grande della perdita del caro genitore, comunista militante ed impegnato assai, e che in quello scenario storico diviene un’adolescente impegnata al pari del carissimo genitore. Un film che è film di iniziazione politica e sentimentale; di affetti cari tenuti in gran conto, di disperazioni e sogni. Un film che inneggia alla solidarietà familiare, alla solidarietà in ragione di una scelta politica; un tutt’uno, che è difficile ritrovare oggigiorno nelle quotidiane esperienze dei nostri adolescenti ed ancor più nello squallido scenario di una “politica” che non offre sogni ma ancor più non offre giustizia sociale e possibilità di scalare quell’impervia scala sociale divenuta in questo ultimo tempo inescalabile ai più, ai tanti. Il film si chiude con uno scenario imprevisto. Il piccolo schermo trasmette le immagini del trionfo, ahimè, dell’odiato impero capitalista, ovvero la discesa sulla Luna degli astronauti americani – era l’anno 1969 -. Astronauti e non cosmonauti. Ché anche in questo il film consegna piccole perle d’immagini, suoni – come non dire della magnifica colonna sonora che lo attraversa tutto con le più belle canzoni di quegli anni – e parole: “astronauti” loro, gli odiati americani, i capitalisti, “cosmonauti” i proletari di quel tempo, quelli che stavano e stanno ancor’oggi dall’altra parte. Un piccolo capolavoro sì – 83 minuti appena – da vedere, da assaporare, da amare, per quel che quella esperienza ha rappresentato, nel bene e nel male, per milioni di giovani di allora. Voglio dirlo: “c’ero anch’io”. Un mito che si infranse da un lato. Un mito, quello americano invece, che avrebbe di lì a poco investito, come una potente valanga, l’universo mondo. La Terra, le coscienze. Un appiattimento globale. Uno stordimento generalizzato. Ne ha scritto in tempi andati – l’11 di aprile dell’anno 2010, su quello che è stato il giornale di Antonio Gramsci l’Unità, per chi lo ricordasse ancor’oggi - Goffredo Fofi in un Suo editoriale dal titolo “L’equivoco del mito americano”. Di seguito lo trascrivo in parte: (…). …nel film Nel corso del tempo (…) Wim Wenders, (…) narrò di due sbandati reduci on the road di quei movimenti ( anni sessanta e dintorni n.d.r. ), uno dei quali diceva una grande verità: «Gli americani ci hanno colonizzato l'inconscio». Ma non si trattava solo dell'inconscio, si trattava di quasi tutto. Gli americani hanno imposto al mondo quel che forse il mondo voleva: l'idea di una servitù consolata dal benessere e distratta dai media, i quali, in modo ossessivo e ridondante, onnipresente e diciamo pure schifosamente totalitario, hanno invaso il pubblico come il privato, hanno fatto dell’american way of life un pensiero unico, gradito a tutti. L'individuo sparisce, anche gli si dice che è ancora individuo soltanto nell'atto del consumo. Questo modello è entrato nell'inconscio di tutti, nessuno se ne può dichiarare indenne. Perfino la Chiesa è scesa amorevolmente a patti con il modello capitalista, che è a ben vedere il più laico e anzi ateo di tutti nonostante le frenesie fondamentaliste delle sue sette e di tanti suoi governanti, dopo aver furiosamente lottano contro quello comunista e non abbastanza contro quello fascista. Ha resistito qualche istituzione nata dalla seconda guerra mondiale, forse, presa a picconate oggi dal più americano degli italiani, il caro Berlusconi. (…). Qualche anno fa, in un lucidissimo intervento, Susan Sontag disse che gli Usa avevano diffuso nel mondo la peste, e che probabilmente di questa peste il mondo sarebbe morto. Nonostante tutto l’amore e i nostri debiti di riconoscenza per tante minoranze etiche Usa, religiose sociali artistiche, nonostante le speranze democratiche (il sogno) di John Dewey o Hannah Arendt, nonostante la capacità della federazione di assorbire e integrare, alla lunga (ma dopo quanti dolori!), le sue minoranze etniche, se si allontana l’obiettivo e si guarda in campo lungo o lunghissimo, mi pare impossibile non rendersi conto che il modello americano - e le banche e le multinazionali e gli eserciti che lo hanno diffuso prosperandone - restino un nemico o non un amico della democrazia. Al posto dell’individuo il consumatore, al posto del pensiero l’abbuffata mediatica, al posto delle aperture solidali l’egoismo e anzi l’autismo, al posto della libertà la pubblicità. (…).
Poiché lo scenario storico – a confronto i questa nostra contemporaneità senza progetti, senza un futuro accettabile da intravvedere, scandalosa assai - rappresentato nel magnifico lavoro cinematografico è quello della contrapposizione dura e pura tra l’Occidente, capitalista e consumista a quegli albori, e l’Oriente, rappresentato, almeno a quel tempo ché la Cina era ancora lontana, dalla esperienza e dalla speranza, per altri milioni e milioni di uomini e donne di tutto il pianeta, dell’esperimento in atto in quella che è stata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ed in quello scenario delineato nel film la gara tra i due contrapposti schieramenti, le due superpotenze appunto, con l’iniziale vantaggio conseguito dalla ricerca sovietica nella esplorazione dello spazio. E ritornano, tra le bellissime immagini del film, gli interessanti e splendidi spezzoni televisivi, della televisione di allora, di quella televisione che definirei “ingenua”, a documentare lo sforzo di quegli uomini per vincere una gara con i più ricchi avversari. Il compagno Gagarin cosmonauta, la cagnetta Laika, è tutto un rincorrersi di ricordi, di carissime memorie. E di grandi, grandissime illusioni. E delusioni. E sullo sfondo storico la storia di Luciana, ancora una bimba nel racconto iniziale del film, divenuta un’adolescente nel prosieguo della storia, che arriva alla vita segnata dal dolore grande della perdita del caro genitore, comunista militante ed impegnato assai, e che in quello scenario storico diviene un’adolescente impegnata al pari del carissimo genitore. Un film che è film di iniziazione politica e sentimentale; di affetti cari tenuti in gran conto, di disperazioni e sogni. Un film che inneggia alla solidarietà familiare, alla solidarietà in ragione di una scelta politica; un tutt’uno, che è difficile ritrovare oggigiorno nelle quotidiane esperienze dei nostri adolescenti ed ancor più nello squallido scenario di una “politica” che non offre sogni ma ancor più non offre giustizia sociale e possibilità di scalare quell’impervia scala sociale divenuta in questo ultimo tempo inescalabile ai più, ai tanti. Il film si chiude con uno scenario imprevisto. Il piccolo schermo trasmette le immagini del trionfo, ahimè, dell’odiato impero capitalista, ovvero la discesa sulla Luna degli astronauti americani – era l’anno 1969 -. Astronauti e non cosmonauti. Ché anche in questo il film consegna piccole perle d’immagini, suoni – come non dire della magnifica colonna sonora che lo attraversa tutto con le più belle canzoni di quegli anni – e parole: “astronauti” loro, gli odiati americani, i capitalisti, “cosmonauti” i proletari di quel tempo, quelli che stavano e stanno ancor’oggi dall’altra parte. Un piccolo capolavoro sì – 83 minuti appena – da vedere, da assaporare, da amare, per quel che quella esperienza ha rappresentato, nel bene e nel male, per milioni di giovani di allora. Voglio dirlo: “c’ero anch’io”. Un mito che si infranse da un lato. Un mito, quello americano invece, che avrebbe di lì a poco investito, come una potente valanga, l’universo mondo. La Terra, le coscienze. Un appiattimento globale. Uno stordimento generalizzato. Ne ha scritto in tempi andati – l’11 di aprile dell’anno 2010, su quello che è stato il giornale di Antonio Gramsci l’Unità, per chi lo ricordasse ancor’oggi - Goffredo Fofi in un Suo editoriale dal titolo “L’equivoco del mito americano”. Di seguito lo trascrivo in parte: (…). …nel film Nel corso del tempo (…) Wim Wenders, (…) narrò di due sbandati reduci on the road di quei movimenti ( anni sessanta e dintorni n.d.r. ), uno dei quali diceva una grande verità: «Gli americani ci hanno colonizzato l'inconscio». Ma non si trattava solo dell'inconscio, si trattava di quasi tutto. Gli americani hanno imposto al mondo quel che forse il mondo voleva: l'idea di una servitù consolata dal benessere e distratta dai media, i quali, in modo ossessivo e ridondante, onnipresente e diciamo pure schifosamente totalitario, hanno invaso il pubblico come il privato, hanno fatto dell’american way of life un pensiero unico, gradito a tutti. L'individuo sparisce, anche gli si dice che è ancora individuo soltanto nell'atto del consumo. Questo modello è entrato nell'inconscio di tutti, nessuno se ne può dichiarare indenne. Perfino la Chiesa è scesa amorevolmente a patti con il modello capitalista, che è a ben vedere il più laico e anzi ateo di tutti nonostante le frenesie fondamentaliste delle sue sette e di tanti suoi governanti, dopo aver furiosamente lottano contro quello comunista e non abbastanza contro quello fascista. Ha resistito qualche istituzione nata dalla seconda guerra mondiale, forse, presa a picconate oggi dal più americano degli italiani, il caro Berlusconi. (…). Qualche anno fa, in un lucidissimo intervento, Susan Sontag disse che gli Usa avevano diffuso nel mondo la peste, e che probabilmente di questa peste il mondo sarebbe morto. Nonostante tutto l’amore e i nostri debiti di riconoscenza per tante minoranze etiche Usa, religiose sociali artistiche, nonostante le speranze democratiche (il sogno) di John Dewey o Hannah Arendt, nonostante la capacità della federazione di assorbire e integrare, alla lunga (ma dopo quanti dolori!), le sue minoranze etniche, se si allontana l’obiettivo e si guarda in campo lungo o lunghissimo, mi pare impossibile non rendersi conto che il modello americano - e le banche e le multinazionali e gli eserciti che lo hanno diffuso prosperandone - restino un nemico o non un amico della democrazia. Al posto dell’individuo il consumatore, al posto del pensiero l’abbuffata mediatica, al posto delle aperture solidali l’egoismo e anzi l’autismo, al posto della libertà la pubblicità. (…).
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