Da “Uno
schiaffo per le leggi razziali” di Bernardo Valli, pubblicato sul
settimanale “L’Espresso” del 28 di gennaio 2018: Il ragazzo doveva avere dodici
anni, almeno quattro più di me, e questo gli conferiva ai miei occhi
un’irraggiungibile superiorità. Quando si dondolava sull’altalena e sferrava
calci mi sembrava invulnerabile. Tentavamo invano di fermarlo e di costringerlo
a cederci il posto. Mio fratello maggiore, all’incirca coetaneo del nostro
avversario, guidava gli attacchi. E guardavamo come se fossero ferite di guerra
i segni, un leggero graffio e un appena visibile livido, lasciati sul suo corpo
dalle punte delle scarpe nemiche che ci arrivavano addosso come lanciate da una
catapulta. Il gioco, più sgarbato che violento, ci appassionava in quella fine
estate del 1938, nel parco di un albergo di Fiumetto. Non riuscimmo mai a
disarcionare dall’altalena l’adolescente con i riccioli biondi, un fisico ben
disegnato e uno sguardo deciso. Non si univa mai a noi e nel tardo pomeriggio,
al ritorno dalla spiaggia, occupava l’altalena e lanciava la sfida. Eravamo uno
sparuto branco di giovani villeggianti, ne ricordo quattro, e lui era sempre
solo in quell’oasi borghese dove all’odore denso della pineta si mescolava
quello della crema Nivea, usata per le scottature del sole. Un giorno mia madre
ci disse di lasciare in pace quel ragazzo. Non valsero le nostre proteste.
Replicammo che non consentendoci di usare l’altalena il provocatore era lui, ma
fummo messi a tacere con due schiaffi. Uno a testa. A mio fratello e a me. I
due ceffoni dettero alle parole materne il peso di un ordine perentorio: non
dovevamo rispondere ai calci. Mia madre sapeva essere autoritaria e al tempo
stesso giusta. Le sue punizioni avevano sempre una spiegazione logica. In quel
caso ci dette l’impressione di non esercitare il suo potere secondo i principi
che ci aveva inculcato e che noi interpretavamo in modo spicciativo, e
certamente sbagliato: rispettate e fatevi rispettare. Qualcosa di simile a
occhio per occhio. Come non rispondere a chi ti sferrava dei calci?
L’esortazione evangelica di porgere l’altra guancia non rientrava nel nostro
ancora infantile codice d’onore, più tribale che cristiano. La remissività
impostaci ci sembrò in contraddizione con l’abituale invito a tenere la schiena
dritta. Non capimmo la svolta, ma ci adeguammo nei pochi giorni che restavano
prima della fine della vacanza. Il ragazzo coi riccioli biondi forse si stupì
della nostra improvvisa gentilezza. La nostra docilità probabilmente lo deluse.
La memoria non arriva tanto lontano per ricostruire l’episodio nei particolari.
Il mistero dei due schiaffi affibbiati a me e a mio fratello per rafforzare lo
strano, perché non spiegato, ordine di rispettare il ragazzo biondo
dell’altalena, durò a lungo. Soltanto anni dopo, evocando quella tarda estate
del 1938, ricordai a mia madre l’episodio dimenticato per due decenni. E lei mi
spiegò quello che allora, a suo giudizio, non avremmo capito. Era l’estate
delle leggi razziali. In luglio “ Il giornale d’Italia” aveva pubblicato il
manifesto degli scienziati razzisti, anticipando i decreti sulla questione
ebraica. E in quei giorni di metà settembre, mentre noi ragazzi eravamo
impegnati nella “guerra dell’altalena”, Mussolini pronunciava un discorso
antisemita sulla piazza Unità d’Italia, davanti al municipio di Trieste. Il 5
agosto era uscito il primo numero di “Difesa della razza”, diretta da Telesio
Interlandi, con un disegno sulla copertina che annunciava il contenuto della
rivista: una spada, simbolo del fascismo, divideva il profilo dell’italico
antico romano da quelli delle razze spurie. E all’interno si invitavano gli
italiani a «dichiararsi francamente razzisti». Sarebbero stati vietati i
matrimoni tra italiani ed ebrei; gli ebrei non avrebbero più potuto avere degli
ariani come dipendenti; né avrebbero potuto esercitare professioni come il
notaio, il funzionario di banca, il giornalista, l’insegnante; e gli studenti
ebrei avrebbero dovuto frequentare scuole separate… Tra l’estate e l’autunno
del ’38 l’ondata antisemita si era abbattuta sull’Italia fascista e quel
ragazzo dell’altalena, essendo ebreo, ne era una vittima. Per questo mia madre
voleva che lo rispettassimo. Era un modo di dirgli che noi non eravamo d’
accordo su quel che accadeva. Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario e
ho l’impressione di sentire lo schiaffo materno.
Nessun commento:
Posta un commento