La “sfogliatura” è del martedì 7
di aprile dell’anno 2009, all’indomani di quella scossa, verificatasi il 6 di aprile
dell’anno 2009 alle ore mattutine (3:32), per effetto della quale L’Aquila e l’Abruzzo
si inginocchiarono soccombenti dinnanzi al terribile disastro. Per altri
iniziava invece la grossa occasione per lo sfruttamento mediatico – ed economico,
caspita! - di un evento che il 6 di aprile prossimo venturo – ben 9 anni dopo -
mostrerà ancora le gravi ferite non sanate. Poiché, come scrive bene Curzio
Maltese sul settimanale “il Venerdì” di Repubblica del 16 di febbraio 2018 – “Nazionalismo di cartapesta” -, “Gli
italiani non si sentono una comunità. (…). Gli italiani hanno paura degli altri
italiani (a ben ragione, stante la Storia che li riguarda grande o
piccola che sia n.d.r.) da secoli, ci siamo massacrati in cento
piccole guerre civili – perfino il dibattito sugli immigrati è un’altra bella
occasione per disprezzarci fra noi – e l’arrivo dei “barbari”è alla fine una
soluzione. L’illusione di trovare in negativo un’identità nazionale non si è
mai forgiata su basi positive, per dire una magnifica lingua che in pochi
praticano o l’orgoglio di un patrimonio culturale che i turisti conoscono e
rispettano meglio di noi. I valori del Risorgimento furono accantonati un
giorno dopo l’Unità, insieme ai suoi eroi. Nel vuoto è avanzato un nazionalismo
di cartapesta, come la storia reinventata dal fascismo e i fondali televisivi
di Berlusconi sui palazzi antichi. Oggi il leader del «prima gli italiani» è
uno che ieri cantava: «Senti che puzza, scappano li cani, sono arrivati i
napoletani». (…). Se proprio non si riesce a trovare in positivo un’identità,
almeno dovremmo sceglierci meglio i nemici della nazione. Che sono i mafiosi, i
corrotti, gli evasori, i politici incapaci, gli speculatori, ben prima dello
straniero. E questo in fondo gli italiani lo sanno benissimo. Scrivevo in
quel tempo andato: Permettetemi una
parola. O più parole. Che non hanno la pretesa alcuna di sbalordire. Di
scandalizzare. Una o più parole che divengano una voce. Una voce vera. Una voce
da “bastian contrario” nel bel mezzo di una tragedia? Una voce fuori dal coro
lamentevole? È che la tragedia diviene, per colpa grande dei mezzi di
comunicazione di massa, materia prima e preziosa assai e da tesaurizzare per
l’intrattenimento più sconveniente che si possa immaginare. Informazione o
intrattenimento? Mi ci dibatto furiosamente. Ed è accaduto anche in questa
tristissima occasione. Non poteva essere altrimenti. Si narra, almeno prestando
fede alla aneddotica corrente, che lui, quello del ventennio nero, avesse dato
disposizione affinché le luci di palazzo Venezia rimanessero accese sempre
nella notte romana. Un espediente mediatico per l’appunto. Primitivo assai. Lui
lavora per tutti noi. Lui veglia sui destini imperiali nostri. Così si saranno
detti i buontemponi aggirantisi nei paraggi di palazzo Venezia nelle tarde ore
romane. È che quel mezzuccio mediatico aveva un limitatissimo potere di
diffusione. Ma con tutto ciò è servito pure a creare una mitologia del capo che
lavora incessantemente per i radiosi destini della patria amata. Solo che ha
pensato bene poi ad affogarla, l’amata patria, in una sciagurata guerra con
tutte le conseguenze tragiche che una guerra comporti. Lo soccorreva però in
quel tempo il benemerito Istituto Luce. Ed avveniva che in tutte le contrade
ubertose del bel paese i filmati in bianco e nero di lui mietitore, di lui
pilota, di lui soldato contribuissero all’indottrinamento forzato del popolo
del bel paese. Altra cosa è invece la televisione oggigiorno. Ché se ne avesse
potuto disporre lui, quello del ventennio nero, in quel tempo, forse le sorti
del bel paese sarebbero state, anche se tragiche sempre, diverse. Forse più
tragiche ancora! Chi lo sa. Ho ascoltato lui, quello del tempo nostro,
collegato telefonicamente con il salotto prontamente allestito dall’imenottero
televisivo, il vespide della tv, in prima serata, con il massimo dell’ascolto, l’ho
sentito perentoriamente impartire disposizioni a due suoi famigli, che
sarebbero poi anche due ministri della repubblica, ministri ma solo a tempo
perso, affinché si muovessero a procurargli, nella nottata incombente ed
all’addiaccio per migliaia di esseri umani, un migliaio ancora, a suo dire, di aitanti
pompieri ed altrettante migliaia di soldati nerboruti da inviare prontamente
nelle zone del dramma. Che lui – detto sempre da lui al telefono
dell’imenottero televisivo, il vespide della tv - aveva organizzato i soccorsi
dall’alto di un elicottero. Che lui garantiva che presso ogni cumulo di macerie
ci sarebbe stato un nutrito gruppo di soccorso. Che secondo lui nessuno sarebbe
stato lasciato solo. Che lui… Che lui… Staremo a vedere o a sentire nei mesi
prossimi venturi. E mentre continuava il diluvio mediatico di immagini senza
utilità alcuna, mi ponevo la questione dove fosse il limite proprio di una
corretta informazione e dove questo limite sforasse nel più indecente terreno
dell’intrattenimento. Ecco il punto: quale il limite dell’informazione
corretta? E dove essa diviene strumento perverso di intrattenimento e di subliminale
asservimento emotivo? Nei filmati del benemerito Istituto Luce è probabile che
venisse preservato e continuasse ad essere contenuto in essi quel “pathos” proprio di ogni creazione che
coinvolga il vedere ed il sentire degli esseri umani. Il famoso “pathos” della classicità. Così come
avviene ogni qual volta si accede ad un luogo deputato alle rappresentazioni. È
che la televisione “mitridatizza”
l’incolpevole ed inconsapevole telespettatore, lo “mitridatizza” al punto da farlo partecipare ad un evento, anche il
più tragico della storia, con un distacco ed una partecipazione indotta dalla
assuefazione subliminale che per essa scorre venefica. Siamo appena usciti
dall’incubo della “Caffarella”.
Ricordate la “Caffarella”? Non c’era notiziario che non iniziasse con la “Caffarella” in prima battuta. “Caffarella” qua, “Caffarella” là, con le riprese ravvicinate, zoomate, sempre ritrasmesse, dell’erba di quel prato schiacciata dai corpi coinvolti nello stupro, al punto che se avessero potuto avrebbero anche inquadrato i liquidi organici residuati disseminati nel luogo del delitto orrendo. Un’ossessione. Una tragedia, ma senza “pathos”. Forse, e ripeto forse, un evento con tanta morbosità dentro o dietro. E fu così per il Circeo. E fu così per Cogne. E fu così per quant’altro di oscenamente morboso sia esistito tragicamente in questo maldestro paese. Poiché il tutto che è drammatico a questo mondo appiattito ed uguale, un mondo liquido come lo definisce il sociologo del momento, è utilizzato secondo convenienza, per un fine ben preciso che è intrattenere le genti affinché possano passare nelle loro menti assorbite e distratte ben altri messaggi meno edificanti. Inconsapevolmente. Ecco perché ho preferito ascoltare le notizie della tragedia per radio. La cara radio di un tempo. O telefonando a carissimi amici che sapevo essere stati coinvolti, magari attraverso i loro familiari residenti in quella sfortunata e tragica terra, nel dramma. Ho cercato le notizie che ritenevo necessarie alla mia informazione sull’evento tragico, le notizie necessarie al mio senso di cittadinanza. Per una partecipazione non strillata. Non gridata ai quattro venti. Mi sono così risparmiato di partecipare ad una messa in scena – di teatralità - come in tante altre occasioni è avvenuto, per non sentirmi anch’io compartecipe e presente in quel salotto prontamente allestito nello studio dell’imenottero televisivo, il vespide della tv. Ecco perché non vorrei che venisse la mia considerata una voce del tutto fuori dal coro. Una voce senza senno. Ho fatto vivere il mio “pathos” al riguardo della tragica vicenda nella mia mente, nel ristretto della mia coscienza, provando ad immaginare lo scempio dei luoghi e degli uomini. Trascrivo di seguito una riflessione di Gabriele Pedullà, esperto in comunicazione, a proposito del “pathos” che viene a mancare in tutte le vicende che passano per quel mostro che è il piccolo schermo. La riflessione è stata pubblicata tempo addietro su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”: La televisione favorisce la passività, gli spettatori sono tenuti prigionieri, l'onnipresenza degli audiovisivi fiacca le capacità di resistenza alla propaganda. Siamo abituati a sentire ripetere così spesso frasi come questa che abbiamo smesso di interrogarci sulla loro attendibilità. Il discorso merita tuttavia un'ulteriore riflessione. Quando ‘il cinema si vedeva solo al cinema’, gli spettatori erano obbligati a fare esperienza del film secondo un codice di comportamento unico, ma la diffusione di videoregistratori, lettori, videofonini, palmari oltre che, appunto, della televisione ha cambiato tutto. La sala cinematografica, così come la sua antenata (la sala teatrale all'italiana inventata dagli architetti del Rinascimento), è stata pensata per un pubblico dedicato. Immobile, silenzioso, attento, disciplinato. E ricettivo. La televisione invece, soprattutto da quando è regolata dall'utilizzo del telecomando, ha sancito il passaggio dalla passività assoluta a una forma di sfrenata attività. E l'affrancamento dalle costrizioni a cui si sono dovuti sempre sottoporre gli spettatori. Oggi siamo dunque e senza dubbio più liberi. Non è detto però che questa nuova condizione sia così favorevole. Già pensati per la loro trasmissione televisiva, i nuovi film non godono più della protezione della sala e sono costretti a guadagnarsi l'attenzione del pubblico fotogramma per fotogramma, un po' come succede nei videoclip musicali (montaggio sincopato, movimenti di macchina frenetici), in modo da evitare che lo spettatore cambi canale o passi alla scena successiva. Ma soprattutto la fine dell'azione disciplinante della sala trasforma radicalmente la reazione degli spettatori. Perché il pubblico non è più chiamato a sperimentare direttamente sul proprio corpo un'impotenza in tutto e per tutto simile a quella dei personaggi prigionieri della storia che prende forma sotto i loro occhi. L'americano Stanley Cavell, uno dei pensatori contemporanei che più ha ragionato sul teatro come arte della sala, indicava in questa passività forzata del pubblico (che nulla può fare per coloro che patiscono sul palco) il vero fulcro del dramma. La sofferenza provocata dall'impossibilità di salvare Desdemona e Otello dalla rete di Jago servirebbe precisamente a rendere gli spettatori consapevoli che, diversamente da quanto succede a teatro (o sul grande schermo di una sala cinematografica, per tornare al nostro caso), nella quotidianità possiamo e dobbiamo rompere l'asimmetria e accettare quella responsabilità che sempre accompagna la libertà. Ma affinché ciò avvenga è necessario che prima si patisca immobili e in silenzio: senza potersi mettere al riparo grazie al telecomando. Mentre la tv arriva a infrangere quel nesso tra necessità, sofferenza e catarsi che caratterizza l'esperienza scenica da 2.500 anni. Morte della tragedia?
Ricordate la “Caffarella”? Non c’era notiziario che non iniziasse con la “Caffarella” in prima battuta. “Caffarella” qua, “Caffarella” là, con le riprese ravvicinate, zoomate, sempre ritrasmesse, dell’erba di quel prato schiacciata dai corpi coinvolti nello stupro, al punto che se avessero potuto avrebbero anche inquadrato i liquidi organici residuati disseminati nel luogo del delitto orrendo. Un’ossessione. Una tragedia, ma senza “pathos”. Forse, e ripeto forse, un evento con tanta morbosità dentro o dietro. E fu così per il Circeo. E fu così per Cogne. E fu così per quant’altro di oscenamente morboso sia esistito tragicamente in questo maldestro paese. Poiché il tutto che è drammatico a questo mondo appiattito ed uguale, un mondo liquido come lo definisce il sociologo del momento, è utilizzato secondo convenienza, per un fine ben preciso che è intrattenere le genti affinché possano passare nelle loro menti assorbite e distratte ben altri messaggi meno edificanti. Inconsapevolmente. Ecco perché ho preferito ascoltare le notizie della tragedia per radio. La cara radio di un tempo. O telefonando a carissimi amici che sapevo essere stati coinvolti, magari attraverso i loro familiari residenti in quella sfortunata e tragica terra, nel dramma. Ho cercato le notizie che ritenevo necessarie alla mia informazione sull’evento tragico, le notizie necessarie al mio senso di cittadinanza. Per una partecipazione non strillata. Non gridata ai quattro venti. Mi sono così risparmiato di partecipare ad una messa in scena – di teatralità - come in tante altre occasioni è avvenuto, per non sentirmi anch’io compartecipe e presente in quel salotto prontamente allestito nello studio dell’imenottero televisivo, il vespide della tv. Ecco perché non vorrei che venisse la mia considerata una voce del tutto fuori dal coro. Una voce senza senno. Ho fatto vivere il mio “pathos” al riguardo della tragica vicenda nella mia mente, nel ristretto della mia coscienza, provando ad immaginare lo scempio dei luoghi e degli uomini. Trascrivo di seguito una riflessione di Gabriele Pedullà, esperto in comunicazione, a proposito del “pathos” che viene a mancare in tutte le vicende che passano per quel mostro che è il piccolo schermo. La riflessione è stata pubblicata tempo addietro su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”: La televisione favorisce la passività, gli spettatori sono tenuti prigionieri, l'onnipresenza degli audiovisivi fiacca le capacità di resistenza alla propaganda. Siamo abituati a sentire ripetere così spesso frasi come questa che abbiamo smesso di interrogarci sulla loro attendibilità. Il discorso merita tuttavia un'ulteriore riflessione. Quando ‘il cinema si vedeva solo al cinema’, gli spettatori erano obbligati a fare esperienza del film secondo un codice di comportamento unico, ma la diffusione di videoregistratori, lettori, videofonini, palmari oltre che, appunto, della televisione ha cambiato tutto. La sala cinematografica, così come la sua antenata (la sala teatrale all'italiana inventata dagli architetti del Rinascimento), è stata pensata per un pubblico dedicato. Immobile, silenzioso, attento, disciplinato. E ricettivo. La televisione invece, soprattutto da quando è regolata dall'utilizzo del telecomando, ha sancito il passaggio dalla passività assoluta a una forma di sfrenata attività. E l'affrancamento dalle costrizioni a cui si sono dovuti sempre sottoporre gli spettatori. Oggi siamo dunque e senza dubbio più liberi. Non è detto però che questa nuova condizione sia così favorevole. Già pensati per la loro trasmissione televisiva, i nuovi film non godono più della protezione della sala e sono costretti a guadagnarsi l'attenzione del pubblico fotogramma per fotogramma, un po' come succede nei videoclip musicali (montaggio sincopato, movimenti di macchina frenetici), in modo da evitare che lo spettatore cambi canale o passi alla scena successiva. Ma soprattutto la fine dell'azione disciplinante della sala trasforma radicalmente la reazione degli spettatori. Perché il pubblico non è più chiamato a sperimentare direttamente sul proprio corpo un'impotenza in tutto e per tutto simile a quella dei personaggi prigionieri della storia che prende forma sotto i loro occhi. L'americano Stanley Cavell, uno dei pensatori contemporanei che più ha ragionato sul teatro come arte della sala, indicava in questa passività forzata del pubblico (che nulla può fare per coloro che patiscono sul palco) il vero fulcro del dramma. La sofferenza provocata dall'impossibilità di salvare Desdemona e Otello dalla rete di Jago servirebbe precisamente a rendere gli spettatori consapevoli che, diversamente da quanto succede a teatro (o sul grande schermo di una sala cinematografica, per tornare al nostro caso), nella quotidianità possiamo e dobbiamo rompere l'asimmetria e accettare quella responsabilità che sempre accompagna la libertà. Ma affinché ciò avvenga è necessario che prima si patisca immobili e in silenzio: senza potersi mettere al riparo grazie al telecomando. Mentre la tv arriva a infrangere quel nesso tra necessità, sofferenza e catarsi che caratterizza l'esperienza scenica da 2.500 anni. Morte della tragedia?
Nessun commento:
Posta un commento