"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 26 aprile 2021

Virusememorie. 72 «Siamo umani in prova. In crisi. In ansia».

Quanti sono stati e sono tuttora i “negazionisti” del Covid-19 in questo destrutturato bel paese? Ricordate la “bagasse” dell’ultima estate gridare, in riva al mare della solatia Trinacria, “’u coviddi non c’è”? E divenire – per altissimi meriti acquisiti sul campo – l’eroina dei forzati della “tintarella” - e non solo -, ovvero l’eroina di tutti i dissennati della rete? E quanti sono gli “aperturisti” di questo distrattissimo bel paese? Ne ha scritto Michele Serra in “Fare i conti senza le bare”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 24 di aprile 2021: Il fronte degli aperturisti a oltranza sostiene una posizione che avrebbe una sua legittimità, se solo avessero il coraggio di dirla così com'è: preferiamo qualche migliaio di morti in più piuttosto della morte di alcuni settori economici che ci stanno particolarmente a cuore, anche perché è soprattutto in quel bacino elettorale che noi peschiamo voti. È un ragionamento decisamente rude, ma appartiene senza dubbio alla discussione in corso, nel mondo intero, a proposito della pandemia, delle sue conseguenze, del modo di affrontarla. Ma non la dicono così, perché suonerebbe troppo cinico, e troppo schietto. E nei talk-show, quando l'epidemiologo di turno li inchioda alla realtà delle cose (meno limitazioni vuol dire più contagi e più morti), fanno come ha fatto l'altra sera il leghista Borghi: inalberano un sorrisetto di sufficienza, come si fa di fronte ai menagramo, e tirano diritto, come chi, di un problema, enuncia solo la parte che fa comodo a lui. Così, però, è troppo facile. Avrei molto più rispetto per un politico che sorridesse di meno e dicesse: "Sì, è vero, lo sappiamo tutti, moriranno più persone, ma è un prezzo da pagare, perché sarebbe maggiore il costo sociale di ulteriori chiusure e limitazioni. L'economia che si riprende vale qualche fila di bare in più". Ecco, questo sarebbe un ragionamento brutale, ma rispettabile nella sua sincerità. Invece fare finta di nulla, e limitarsi a sollecitare l'applauso della claque strillando "basta con questa galera! Riapriamo tutto!" non è rispettabile. Omette di fare i conti comprendendo anche i costi, in questo caso i costi umani. È un modo per barare al gioco. Ne scrivo il giorno dopo della “memoria” che si celebra in quel del 25 di aprile. Quel 25 di aprile che ha sancito – o ha solamente ispirato? - nella Sua Costituzione – all’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” - che la “salute” è un diritto, per l’appunto un diritto costituzionale. Come la vita, tout-court. Sento, appena accennato ma ben distinto, un lungo e profondo borborigma risalire dalla “pancia” del bel paese che sollecita una presa di distanza da quelle prescrizioni costituzionali che si continuano a proclamare come solenni ed inviolabili. Ne dubito lo potranno essere ancora, in un paese che si avvia ad anteporre, a quei solenni dettami costituzionali, le ragioni della economia. Si dia il caso che nel corso della settimana appena spirata la grande stampa abbia dato amplissimo spazio – a mio parere immotivato, scandalosamente immotivato - ad un vegliardo che ha sintetizzato il suo non augusto e non venerando pensiero informandoci di temere molto di più il “pannolone” che la morte. Liberissimo di pensarlo per se stesso, ma non di imporlo a tutte gli esseri umani. E pensare che quel vegliardo ha frequentato ed animato, con incarichi anche importanti, i cenacoli “sindacali” o “politici” del bel paese. Ora, alla sua veneranda età, proclama ai quattro venti la necessità del superamento di quel principio costituzionale che ha informato ed informa tuttora l’agire politicamente responsabile, ohibò, sino ad arrivare alla sua cancellazione dalla Carta. È su questi problemi che si misurerà il vivere civile ed umano delle italiche moltitudini sopravvissute al Covid-19. Continua la scrittrice siciliana Elvira Seminara a scandagliare il profondo sentire di un paese colto dalla terribile “pandemia”. E dopo aver scandagliato le “sfere emotive” della “invidia”, della “nostalgia” e della “noia” approda a scandagliare ciò che è rimasto, nel bel paese, della “compassione” nel Suo “Solidali ma furbi la nostra umanità alla prova del nove”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” - nella edizione di Palermo - del 22 di aprile 2021: (…). Si chiama compassione. Fra i sentimenti riscritti dal Covid è quello forse più sorprendente e rassicurante. C’è voluta una pandemia, coi suoi nuovi tempi e i nuovi spazi – sociali, personali, intimi, professionali – per spazzare via dalla nostra vita luoghi comuni e polverosi. Le nostre griglie arrugginite. Le brevi e consumate certezze sul nostro corpo, sul nostro lavoro, l’assetto sociale, l’uso dello spazio pubblico, i rituali privati, la nostra sintassi affettiva, la mappa familiare. Nulla di tutto questo – relazioni, pratiche, gerarchie intime di valori e occupazioni – è rimasto identico a prima. Compassione è una parola antica, impegnativa. Mentre la scrivi senti l’insidia della retorica, mentre la dici sembra obsoleta, lontana. Preferiamo sempre, al suo posto, la versione laica, più mediatica: solidarietà. Ma compassione – secondo l’etimo “patire insieme – è una parola più bella. In Budda è il sorriso triste davanti al mondo affaticato e in lotta, è quello sguardo pacificato di chi si sente dentro il tutto eppure in alto, sollevato dalla pena e dalla mente illuminata. In Cristo è il gesto di pietà, il pensiero perdonante. Commiserazione segreta. Che diventa atto oppure commozione. Comunque sia, è successo. In pandemia siamo tutti uniti, soccorrevoli, solidali. Attivi e generosi nell’aiutare gli altri, dal gesto piccolo nel condominio alle raccolte organizzate di fondi, fra iniziative di soccorso individuali e collettive. Cos’è successo? Prima del virus ci sentivamo i registi, sceneggiatori e protagonisti del serial della nostra vita, ma siamo stati estromessi dal set senza spiegazioni o garanzie dopo. Anzi, è stato proprio smontato il set. Ci siamo riscoperti fragili, impoveriti, ridimensionati nelle nostre rotte e capacità di previsione. Mentre il mondo fuori, sinora complice o conciliante, è diventato zitto, vuoto e minaccioso. Abbiamo scoperto, fortunosamente, che abbiamo bisogno degli altri. Per scambiarci sguardi, parole e sensazioni, anche on line. Il primo uomo che si rompe il femore nella foresta segna l’avvento della società civile, dice l’antropologa Margaret Mead. Se nessuno gli porterà il cibo e avrà cura di lui infatti morirà, come le bestie, perché impossibilitato a muoversi. Compassione e solidarietà tessono fili, orditi e poi reti sempre più complesse. Lo chiami infatti tessuto sociale, e ne abbiamo viste le lacerazioni, i buchi. Mai sino ad oggi la maglia della vita si era mostrata in tutti i suoi nodi, nel suo congegno elementare di intrecci e concatenazioni. Dietro ogni saracinesca chiusa quante famiglie si sono fermate, tra negozianti, proprietari, collaboratori e commessi che vendono cose provenienti da fabbriche, operai e artigiani, distribuite da camionisti, rider e addetti vari consegnate in locali resi puliti e funzionanti da tecnici e operatori? Mai apparsi così urgenti il bisogno e l’utilità della cooperazione, anche al di là dei confini geografici annullati dal virus, poi culminata nella rapida creazione dei vaccini. E allora? Siamo davvero diventati più buoni, più altruisti, sanificati e santificati dal Covid? Eccoci a un passo dalla città riaperta, euforici e smarriti, in questa folle primavera come affiorati da una convalescenza. Attraversati da una “dilagante pietà”. Una “scontrosa” pietà. Sembra quella che Sciascia – ne Il cavaliere e la morte – sente nel suo protagonista che gira per la città stupito, commosso dai cani e dai bambini, dal bisogno di restare vivi, e partecipi, in quel «mondo umano, ingegnoso e feroce nemico della vita e di se stesso». Ma siamo davvero migliori? Possiamo sentirci al sicuro di noi stessi, fiduciosi, dopo tutte le scorrettezze e truffe nelle forniture e utilizzo degli acclamati vaccini, mentre sui cittadini immiseriti dai debiti piombano usurai e compratori a rilevare con cifre irrisorie aziende e esercizi commerciali? Non siamo diventati tutti più onesti e generosi, no. Siamo umani in prova. In crisi. In ansia. In movimento. L’ideogramma cinese di crisi significa anche evoluzione perché l’una implica l’altra. (…). Abbiamo misurato la nostra impotenza, la nostra solitudine. Non siamo diventati più buoni, ma non siamo più gli stessi, ed è già un traguardo. Abbiamo visto il rimpianto e la paura, la comunanza della soglia, il guasto e la fatalità. Ci muoviamo intimiditi e strani, un po’ smaniosi, come alla fine di un incantesimo. E in questo incredibile corpo celeste, come la Ortese chiama la terra, siamo colloquio e sciame. Con più responsabilità di prima, ma in un gioco d’insieme. Con l’innocenza di ritorno.

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