Ha scritto Michele Serra in “Un Paese a breve termine” pubblicato sul settimanale “il Venerdì
di Repubblica” del 18 di settembre dell’anno 2020: (…). Non so (…) se anche nel
dopo-Covid, con una ripartenza così fortemente finanziata, “tutto sarà come
prima”. Ma è ragionevole essere pessimisti, (…). Ma qualche cosa, forse, è
possibile fare. È decisiva, io credo, la lotta culturale e politica contro
quell’avverbio, “a breve”, (…): quasi tutto ciò che noi facciamo è “a breve”,
privo di prospettiva, di respiro, di sguardo, e questo è il problema numero
uno. Sfruttare i campi (e le persone) a breve senza chiedersi che cosa ne sarà
nel tempo. Fare profitto a breve, vedere i risultati a breve, spremere il mondo
a breve, consumare le risorse a breve, avere soddisfazione a breve. Così
funziona il turbo-capitalismo dei nostri anni. E così funziona, ahimé, anche la
politica, che punta ad avere voti oggi e quasi mai osa dire “domani”. Con
conseguenze gravi anche dal punto di vista culturale e psicologico: è il concetto
stesso di futuro, se la prospettiva è sempre “a breve”, a perdersi (…). Tratto
da “La solitudine del maratoneta” di
Barbara Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano», del 30 di marzo 2021: La popolarità
di Giuseppe Conte, anche dopo la caduta del suo governo, continua a essere un
enigma strano e dunque incomprensibile per gran parte dei giornali. Possibile
che susciti tanti consensi, questo dilettante buttatosi in politica pur essendo
sprovvisto di Visione e addirittura di Anima? Il conformismo retorico,
l’incredulità, la mancanza di curiosità regnano sovrani nella grande stampa
italiana, e trasfigurando Mario Draghi lo usano e ne abusano. I commentatori
spesso fanno politica invece di esplorare. (…). Mi soffermo su due momenti
decisivi nel cammino di Conte, che sono stati la pandemia e l’Europa. Sono
momenti che possono essere ricostruiti passo dopo passo (…). Il Covid
innanzitutto, e cioè la parte più disconosciuta e inesplorata della sua popolarità.
Conte è infatti divenuto popolare nonostante abbia inflitto sofferenze enormi
agli italiani, con il lockdown (il primo in Europa) e le chiusure mirate che
hanno tenuto a bada la pandemia. Proprio in occasione di quest’esperienza
frastornante – la protezione della vita, unita a restrizioni della libertà mai
viste nella storia repubblicana – tanti italiani hanno visto in Conte
“l’avvocato del popolo”. Hanno apprezzato la sua straordinaria empatia, e la
costante adesione ai pareri dei principali tecnici e scienziati: un’attitudine
umile e feconda che lo distingue da Emmanuel Macron e che ci ha risparmiato gli
innumerevoli, letali errori del capo di Stato francese. Hanno stimato le sue
conferenze stampa e i suoi discorsi, che i giornalisti mainstream ricordano con
irritazione, mettendoli a confronto con le abitudini oratorie di Mario Draghi.
L’empatia non andava a caccia di “consenso sui social”, come affermò Matteo
Renzi quando sfasciò il governo, ma era il laccio che teneva legati governanti
e governati in un terribile momento della storia mondiale. Abissale e niente
affatto machiavellica è l’ignoranza di questo momento mostrata dal capo di
Italia Viva. Il secondo momento è quello europeo. Secondo la vulgata, oggi
abbiamo un presidente del Consiglio che può “battere i pugni sul tavolo”
nell’Ue, visto che per anni ha presieduto la Banca centrale europea. La storia
è ben diversa, se ripercorriamo il cammino di Conte nell’anno del Covid. Il
piano Next Generation non è nato improvvisamente il 18 maggio scorso, quando
Macron e Merkel hanno annunciato la messa in comune dei debiti nazionali. Si
dimentica quel che ha preceduto il cruciale vertice franco-tedesco: l’ostinato,
indefesso sforzo di Conte per convincere la Germania a superare l’antica
avversione per il debito comune e gli eurobond, ad abbandonare la strategia
dell’austerità che aveva piegato e umiliato la Grecia. Le tappe di questo
sforzo sono (…): dapprima la consapevolezza – già presente nel Conte 1 – che
l’austerità era stata una strategia rovinosa per l’Unione. Poi il tentativo di
far capire in Europa che i cosiddetti populismi andavano esplorati e capiti
(compreso quello dei Gilet gialli, aggiungerei), perché esprimevano malcontenti
dei cittadini cui bisognava dare risposte non ortodosse. Poi il dialogo con
Angela Merkel e lo sforzo di spiegarle come mai l’Italia non chiedeva il Mes,
ma il superamento – tramite il comune debito europeo – dei dogmi neoliberisti.
“Il Mes è lo strumento che abbiamo – replicò la Cancelliera in uno dei vertici
– “non capisco perché tu voglia minarlo”. Al che Conte: “State guardando alla
realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa. Il Mes è stato disegnato
nella crisi dell’euro per Paesi che hanno commesso errori”. La pandemia colpiva
tutti, veniva da fuori ed era simmetrica: doveva finire nell’Ue lo scontro
distruttivo fra creditori e debitori, tra “frugali” e “spreconi”. Mentre
rifiutava i prestiti del Mes, Conte tesseva dunque la sua tela. Anzi, li
rifiutava per meglio tessere l’alternativa: come Spagna e Portogallo, solo che
questi Paesi non sono stati colpiti come in Italia dalla marea retorica
pro-Mes. All’inizio era solo. Poi il 25 marzo 2020 convinse sette governi
europei a firmare una lettera a Charles Michel, presidente del Consiglio
europeo, in cui si chiedeva un nuovo strumento per fronteggiare i disastri del
Covid e preparare insieme “il giorno dopo”. La lettera può essere letta come
manifesto programmatico del Recovery Plan e fu firmata da Francia, Spagna,
Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, Slovenia. “Non stiamo
scrivendo una pagina di un manuale di economia – così Conte – stiamo scrivendo
una pagina di un libro di storia”. Alla fine la pagina fu scritta, e Berlino
accettò quello che non aveva mai accettato, e che ancor oggi purtroppo crea problemi:
la messa in comune del debito, di nuovo contestata – nei giorni scorsi – dalla
Corte costituzionale tedesca. Il Recovery Plan e i 209 miliardi di euro per
l’Italia (prestiti e sovvenzioni a fondo perduto), sono stati decisi il 21
luglio 2020. Conte era solo quando si batté per un’Europa solidale: “Si è mosso
bene dentro un consesso di lupi”, scrisse lo storico Marco Revelli, (…). Era
solo quando decise (contro il parere di chi gli era vicino), di andare a
Taranto per parlare con chi lavora all’Ilva e al tempo stesso soffre gli
effetti tossici dell’acciaieria. Era solo quando aprì alla Via della Seta
cinese e rifiutò la guerra fredda con Mosca (forse paga anche per questo). Era
solo in occidente quando annunciò il lockdown, il 20 marzo 2020. Parlando alla
Bbc, spiegò il ritardo: l’Italia non è la Cina, “da noi limitare libertà
costituzionali è stato un passaggio fondamentale che abbiamo dovuto ponderare,
valutare attentamente. Se avessi proposto un lockdown o la restrizione delle
libertà costituzionali all’inizio, quando avevo i primi focolai, mi avrebbero
preso per pazzo”. Questa somma di solitudini non è piaciuta ai poteri
mediatici, che si son fatti portavoce di altri poteri, nazionali e
transnazionali. Ma lo si deve a lui, se l’Italia piagata dal Covid sarà aiutata
e non sarà sola, “il giorno dopo”.
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