A lato. "Roses a glass" (2021) acquerello di Anna Fiore.
Ha scritto Michele Serra “nel bel mezzo” del Suo “…Ed esiste anche il rischio d’impresa”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di aprile 2021 che “il cuore della questione sia il meccanismo profondo del nostro modo di vivere e che abbia dunque a che fare con la perdita collettiva del concetto di limite”.
Ecco
per l’appunto ri-spuntare il cosiddetto “concetto di limite”, che
dovrebbe essere valido ed invalicabile sia per il singolo essere umano che per
le collettività nel loro complesso. Ché poi è da specificarsi che solamente una
minoranza della collettività umana ha concorso a superare quel “concetto
di limite” a scapito di tutti gli altri esseri viventi del pianeta ed a
scapito dell’assetto e dell’equilibrio ecologico dello stesso. Sul tema “del
concetto di limite” ne ha dottamente scritto Umberto Galimberti in una recentissima
Sua nota – “Non oltrepassare il tuo
limite” – pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del
13 di marzo 2021: Non oltrepassare il tuo limite. Questo è il fondamento dell’etica degli
antichi Greci che l’Occidente ha pericolosamente abbandonato. La dimensione
tragica dei Greci non è un vezzo di quella cultura, ma la visione lucida della condizione
dell’uomo, che per vivere ha bisogno di costruire un senso, in vista della
morte che è l’implosione di ogni senso. Senza nessun primato nella gerarchia
dei viventi, l’uomo nasce, cresce, genera e muore, ma, a differenza degli altri
viventi, sa di dover morire e, d’altro lato, non può vivere senza costruire un
senso che, con la morte, muore con lui. Per questo Nietzsche, che meglio di
chiunque altro ha colto l’anima della Grecia antica, scrive che i Greci sono il
popolo più nobile della storia, perché è stato l’unico che ha avuto il coraggio
di guardare in faccia il dolore. Capiamo allora perché i Greci, che avevano
diverse parole per dire “uomo”, non le impiegano quasi mai e, per designarlo,
preferiscono il termine “mortale”. Come estremo limite dell’esistenza. La
consapevolezza della destinazione alla morte fonda l’etica dei Greci, che non
ha bisogno di precetti e comandamenti, ma solo di una massima: “non
oltrepassare il tuo limite”. Per questo la tragedia greca incatena Prometeo che
aveva donato la tecnica all’uomo. E alla domanda del Coro che chiede se è più
forte la tecnica o le leggi immodificabili che reggono l’ordine della natura,
Prometeo risponde: “La Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità”. Il
riferimento è alla Necessità che governa la natura e la scansione del suo
ciclo, che nessun progetto umano può infrangere, e di fronte al quale ogni
espediente tecnico incontra il suo limite. La natura resta la norma, e su
questa norma gli antichi Greci edificano le loro leggi e le loro morali. È
proponibile questa etica ai giorni nostri? Non solo è proponibile ma
necessaria, dopo che abbiamo “scatenato” Prometeo (che i Greci avevano
incatenato) inseguendo lo sviluppo incontrollato della tecnica, al punto che,
come scrive Günther Anders: “Oggi la nostra capacità di fare è enormemente
superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare”.
Abbiamo così perso anche la virtù iscritta nel nome di Prometeo: “colui che
vede in anticipo (pro-metis)” e quindi ci muoviamo a mosca cieca, inseguendo lo
sviluppo afinalistico della tecnica che non ha altro scopo se non il proprio
potenziamento. E con la tecnica, l’economia che deve sempre crescere, anche se
il PNUD (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ci avverte che noi
occidentali siamo poco meno del 20% dell’umanità, e tuttavia per mantenere il
nostro livello di vita abbiamo bisogno dell’80% delle risorse della Terra. Con
l’emancipazione dei Paesi sottosviluppati può ancora reggere questo sistema?
Eppure dobbiamo crescere perché non conosciamo il limite. E per crescere
dobbiamo consumare, altrimenti si ferma la produzione. Consumare
significa portare al nulla tutte le cose nel tempo più rapido possibile. E
se, a differenza degli alimentari, le altre cose non hanno una data di
scadenza, ad assegnargliela sono la pubblicità e la moda che rendono
inutilizzabili quelle cose che l’anno prima erano di moda. Abbiamo ridotto la
natura a materia prima e non abbiamo un’etica che si faccia carico degli enti
di natura, perché le etiche che l’Occidente finora ha elaborato mirano a
garantire la convivenza tra gli umani, trattando come mezzi e non come fini da
salvaguardare l’aria, l’acqua, la fauna, la flora, l’atmosfera, la biosfera,
che poi sono le condizioni essenziali per la vita umana. L’oltrepassamento del
limite non è il rischio maggiore che corre l’Occidente, ponendo le premesse di
una tragedia tale da far impallidire la dimensione tragica dei Greci? Ha
scritto ancora Michele Serra in quel Suo “pezzo”: (…). …non è trascurabile il fatto
che molte persone (meglio parlare di persone che di categorie) pretendano di
ripianare per intero le loro perdite, incluse quelle non dichiarate. (…). Il
Welfare è una coperta troppo corta, ma è meglio di nessuna coperta – come è
stato per i nostri avi. Penso che la tendenza al lamento, sotto lo schiaffo di
questa crisi tremenda e mondiale, andrebbe tenuta sotto controllo, anche per
dignità: furono peggio le deportazioni di massa e i bombardamenti a tappeto
delle città, forse abbiamo perduto il senso delle proporzioni. E sì, ho (…)
scritto che la sfiga esiste, e non è potere di alcun governo impedire che
esista. Lo confermo: e non è una considerazione politica. Semmai, filosofica:
senza un quid di stoicismo si vive peggio, specie quando arriva la buriana.
Prevedevo reazioni prevalentemente stizzite (del genere, molto in voga sui
social, “taci tu, che sei un privilegiato”). È accaduto il contrario, tanto che
sono costretto a ringraziare cumulativamente i tanti lettori che mi hanno
scritto, (…), per manifestare il loro consenso. Credo che il cuore della
questione sia il meccanismo profondo del nostro modo di vivere e che abbia
dunque a che fare con la perdita collettiva del concetto di limite, ultimamente
così nevralgico in chiave ambientale. Risparmio le ovvietà: i poveri pagano un
prezzo più alto dei ricchi, ci sono pezzi di società più esposti e altri più
tutelati, eccetera. Meno ovvio, credo, è dire che se anche i fortunati – che in
una società come la nostra sono tanti - pretendono ininterrotta fortuna, non
hanno fatto bene i conti con la vita, che prevede anche cadute, malattie,
rovesci della sorte. Infine mi permetto una nota personale, (…). Sono un libero
professionista con partita Iva, non ho alcuna delle tutele riservate ai
lavoratori dipendenti. La mia unica tutela, formale e sostanziale, è lavorare,
e in questo mi sento affratellato a molti altri liberi professionisti,
ristoratori compresi. La pandemia ha, grosso modo, dimezzato il mio reddito a
causa della chiusura dei teatri e della crisi galoppante dell’editoria. Se mi
considero ugualmente una persona benestante (della diffusa sottospecie:
benestante con debiti e mutuo da pagare) non è solo perché ho quanto mi basta
per mangiare, vestirmi, riscaldarmi, pagare i miei debiti e soprattutto pagare
le tasse. È perché non ho mai creduto, davvero mai, che la fortuna fosse un mio
diritto. (…). …esiste il rischio d’impresa. È tra le nozioni più dimenticate, e
più omesse, di una società che pure sull’impresa dovrebbe essere fondata. Covid
a parte, teatri chiusi a parte, se scrivo un brutto libro e nessuno lo compra,
non solo non posso rivalermi sullo Stato: proprio non voglio.
Nessun commento:
Posta un commento