"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 6 aprile 2021

Paginedaleggere. 10 «Consumare significa portare al nulla tutte le cose nel tempo più rapido possibile».

A lato. "Roses a glass" (2021) acquerello di Anna Fiore.

Ha scritto Michele Serra “nel bel mezzo” del Suo “…Ed esiste anche il rischio d’impresa”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 2 di aprile 2021 che “il cuore della questione sia il meccanismo profondo del nostro modo di vivere e che abbia dunque a che fare con la perdita collettiva del concetto di limite”.

Ecco per l’appunto ri-spuntare il cosiddetto “concetto di limite”, che dovrebbe essere valido ed invalicabile sia per il singolo essere umano che per le collettività nel loro complesso. Ché poi è da specificarsi che solamente una minoranza della collettività umana ha concorso a superare quel “concetto di limite” a scapito di tutti gli altri esseri viventi del pianeta ed a scapito dell’assetto e dell’equilibrio ecologico dello stesso. Sul tema “del concetto di limite” ne ha dottamente scritto Umberto Galimberti in una recentissima Sua nota – “Non oltrepassare il tuo limite” – pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 13 di marzo 2021: Non oltrepassare il tuo limite. Questo è il fondamento dell’etica degli antichi Greci che l’Occidente ha pericolosamente abbandonato. La dimensione tragica dei Greci non è un vezzo di quella cultura, ma la visione lucida della condizione dell’uomo, che per vivere ha bisogno di costruire un senso, in vista della morte che è l’implosione di ogni senso. Senza nessun primato nella gerarchia dei viventi, l’uomo nasce, cresce, genera e muore, ma, a differenza degli altri viventi, sa di dover morire e, d’altro lato, non può vivere senza costruire un senso che, con la morte, muore con lui. Per questo Nietzsche, che meglio di chiunque altro ha colto l’anima della Grecia antica, scrive che i Greci sono il popolo più nobile della storia, perché è stato l’unico che ha avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore. Capiamo allora perché i Greci, che avevano diverse parole per dire “uomo”, non le impiegano quasi mai e, per designarlo, preferiscono il termine “mortale”. Come estremo limite dell’esistenza. La consapevolezza della destinazione alla morte fonda l’etica dei Greci, che non ha bisogno di precetti e comandamenti, ma solo di una massima: “non oltrepassare il tuo limite”. Per questo la tragedia greca incatena Prometeo che aveva donato la tecnica all’uomo. E alla domanda del Coro che chiede se è più forte la tecnica o le leggi immodificabili che reggono l’ordine della natura, Prometeo risponde: “La Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità”. Il riferimento è alla Necessità che governa la natura e la scansione del suo ciclo, che nessun progetto umano può infrangere, e di fronte al quale ogni espediente tecnico incontra il suo limite. La natura resta la norma, e su questa norma gli antichi Greci edificano le loro leggi e le loro morali. È proponibile questa etica ai giorni nostri? Non solo è proponibile ma necessaria, dopo che abbiamo “scatenato” Prometeo (che i Greci avevano incatenato) inseguendo lo sviluppo incontrollato della tecnica, al punto che, come scrive Günther Anders: “Oggi la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare”. Abbiamo così perso anche la virtù iscritta nel nome di Prometeo: “colui che vede in anticipo (pro-metis)” e quindi ci muoviamo a mosca cieca, inseguendo lo sviluppo afinalistico della tecnica che non ha altro scopo se non il proprio potenziamento. E con la tecnica, l’economia che deve sempre crescere, anche se il PNUD (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ci avverte che noi occidentali siamo poco meno del 20% dell’umanità, e tuttavia per mantenere il nostro livello di vita abbiamo bisogno dell’80% delle risorse della Terra. Con l’emancipazione dei Paesi sottosviluppati può ancora reggere questo sistema? Eppure dobbiamo crescere perché non conosciamo il limite. E per crescere dobbiamo consumare, altrimenti si ferma la produzione. Consumare significa portare al nulla tutte le cose nel tempo più rapido possibile. E se, a differenza degli alimentari, le altre cose non hanno una data di scadenza, ad assegnargliela sono la pubblicità e la moda che rendono inutilizzabili quelle cose che l’anno prima erano di moda. Abbiamo ridotto la natura a materia prima e non abbiamo un’etica che si faccia carico degli enti di natura, perché le etiche che l’Occidente finora ha elaborato mirano a garantire la convivenza tra gli umani, trattando come mezzi e non come fini da salvaguardare l’aria, l’acqua, la fauna, la flora, l’atmosfera, la biosfera, che poi sono le condizioni essenziali per la vita umana. L’oltrepassamento del limite non è il rischio maggiore che corre l’Occidente, ponendo le premesse di una tragedia tale da far impallidire la dimensione tragica dei Greci? Ha scritto ancora Michele Serra in quel Suo “pezzo”: (…). …non è trascurabile il fatto che molte persone (meglio parlare di persone che di categorie) pretendano di ripianare per intero le loro perdite, incluse quelle non dichiarate. (…). Il Welfare è una coperta troppo corta, ma è meglio di nessuna coperta – come è stato per i nostri avi. Penso che la tendenza al lamento, sotto lo schiaffo di questa crisi tremenda e mondiale, andrebbe tenuta sotto controllo, anche per dignità: furono peggio le deportazioni di massa e i bombardamenti a tappeto delle città, forse abbiamo perduto il senso delle proporzioni. E sì, ho (…) scritto che la sfiga esiste, e non è potere di alcun governo impedire che esista. Lo confermo: e non è una considerazione politica. Semmai, filosofica: senza un quid di stoicismo si vive peggio, specie quando arriva la buriana. Prevedevo reazioni prevalentemente stizzite (del genere, molto in voga sui social, “taci tu, che sei un privilegiato”). È accaduto il contrario, tanto che sono costretto a ringraziare cumulativamente i tanti lettori che mi hanno scritto, (…), per manifestare il loro consenso. Credo che il cuore della questione sia il meccanismo profondo del nostro modo di vivere e che abbia dunque a che fare con la perdita collettiva del concetto di limite, ultimamente così nevralgico in chiave ambientale. Risparmio le ovvietà: i poveri pagano un prezzo più alto dei ricchi, ci sono pezzi di società più esposti e altri più tutelati, eccetera. Meno ovvio, credo, è dire che se anche i fortunati – che in una società come la nostra sono tanti - pretendono ininterrotta fortuna, non hanno fatto bene i conti con la vita, che prevede anche cadute, malattie, rovesci della sorte. Infine mi permetto una nota personale, (…). Sono un libero professionista con partita Iva, non ho alcuna delle tutele riservate ai lavoratori dipendenti. La mia unica tutela, formale e sostanziale, è lavorare, e in questo mi sento affratellato a molti altri liberi professionisti, ristoratori compresi. La pandemia ha, grosso modo, dimezzato il mio reddito a causa della chiusura dei teatri e della crisi galoppante dell’editoria. Se mi considero ugualmente una persona benestante (della diffusa sottospecie: benestante con debiti e mutuo da pagare) non è solo perché ho quanto mi basta per mangiare, vestirmi, riscaldarmi, pagare i miei debiti e soprattutto pagare le tasse. È perché non ho mai creduto, davvero mai, che la fortuna fosse un mio diritto. (…). …esiste il rischio d’impresa. È tra le nozioni più dimenticate, e più omesse, di una società che pure sull’impresa dovrebbe essere fondata. Covid a parte, teatri chiusi a parte, se scrivo un brutto libro e nessuno lo compra, non solo non posso rivalermi sullo Stato: proprio non voglio.

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