"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 21 aprile 2021

Cronachebarbare. 88 «Tra la memoria e l’oblio è possibile solo un pareggio. Un compromesso, per dirla con le parole della politica».

Ha scritto di “lui” Francesco Merlo il 21 di aprile dell’anno 2013 in “Aspettando il capo invisibile”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (...). Un vaffa detto prima può anche far ridere e persino pensare, pur nella sua stupidità volgare, ma il vaffa detto dopo, (…), è il colpo di grazia, una botta di remo sulla testa di un naufrago, lo sparo alla nuca su un corpo rantolante, insomma è esattamente l'opposto della finezza di modi e della difesa dei diritti elementari, soprattutto degli sconfitti, che si celebra negli insegnamenti di quel sottile ed equilibrato giurista che è Stefano Rodotà. E infatti Rodotà ieri per ben due volte si è dovuto dissociare dall'adunata contro Napolitano e dal linguaggio eversivo di Grillo: «Si dissente nelle sedi e nelle forme istituzionali» E dunque mentre a Roma ieri manifestavano nel suo nome era evidente che è ai contrari di Stefano Rodotà che Beppe Grillo si ispira. Per esempio a Maramaldo, il vile che uccideva un uomo morto, (…), facendo saltare tutti i codici di guerra che sono fatti di onore e di rispetto verso il vinto. E si ispira, sia pure in versione genovese, a Ciceruacchio, quando conta il suo popolo a milioni di milioni e straparla di «fine della democrazia», «giornata nera della repubblica». (…). Il “lui” di cui si parla è divenuto d’un colpo l’uomo del giorno. Ha fatto oltremodo notizia, esercizio che, da buon teatrante quale è, non ha mai disdegnato di praticare. Lo è tanto teatrante da avere ispirato al vignettista Riccardo Mannelli la bellissima ed al contempo atroce vignetta di oggi su “il Fatto Quotidiano” nella quale gli fa invocare, nella sua perfida teatralità, d’essere arrestato lui – “arrestate me” – al posto del figliuol prodigo suo, come se lo stato di “diritto” fosse cosa ambigua, ondivaga, come il suo fare e disfare nella politica del bel paese. Scriveva Ezio Mauro sempre di “lui” – “Grillo, la setta dell'altrove” – sul quotidiano “la Repubblica” – del 12 di gennaio dell’anno 2017: (…). La politica è un po' più complicata, a lungo andare, soprattutto negli intervalli tra una campagna elettorale e l'altra: per fortuna non tutto è performance, blog, comizio, una volta ogni tanto bisogna trasmettere l'idea che oltre a distruggere si è capaci anche di costruire qualcosa. L'Europa, poi, è complicata ancor di più. Esistono famiglie politiche, perché esistono vicende storiche e civili che hanno selezionato interessi, valori e persino personalità producendo cultura politica (mi scuso per l'espressione fuori moda): e da quella cultura, semplicemente, sono nate le costituzioni e le istituzioni nelle quali viviamo - potremmo dire - nelle difficoltà degli uomini ma nella libertà del sistema, in questo nostro lungo dopoguerra europeo di pace. Bene, se questa è la cornice, il quadro non è solo un infortunio senza precedenti, da inserire per anni nei repertori comici in teatro, per far ridere la platea. È la conferma di una mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico. Qui succede che un movimento nasce contro l'euro e contro l'Europa, oltre che contro tutte le inefficienze, le disfunzioni e le corruzioni della nostra democrazia indigena. Entra nel gruppo antieuropeista di Farage, campione della Brexit e dell'insularità britannica. Poi, dopo uno stage sul bordo-piscina di Briatore a Malindi, ecco la rivelazione keniota del fondatore, l'idea che per prepararsi a governare conviene abbandonare alleati così radicali, e spostarsi in un'area più tranquillizzante. I liberali? Perché no, vanno bene come qualsiasi opzione che non costringa a scegliere davvero tra destra e sinistra, per non dividere il fascio di consensi. La post-modernità della post-politica è questa: mani libere, destra e sinistra sono superate, il nuovo vive in un altrove indistinto che si può manipolare a piacere e abitare con comodo, interpretandolo come una pièce che si aggiorna di piazza in piazza, secondo l'estro del capocomico. Il fatto di aver ironizzato sui liberali per anni e di aver polemizzato ripetutamente con loro non conta, perché tanto nell'altrove non esiste un'opinione pubblica interna, cui rendere conto. Anzi, la giravolta è diversità, la diversità è libertà, e libertà significa semplicemente che il Capo fa quel che vuole. Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto nessuna passione: politica, storica, culturale, capace di dare anima e corpo ai diversi apparentamenti europei del movimento, di delineare una visione, una prospettiva identitaria, qualcosa di riconoscibile e riconosciuto, un modello di riferimento. L'altrove non ha modelli, se non l'idea originaria del leader, soggetta a colpi di vento o di sole africani, ma per definizione esatta, innocente, intatta nel cerchio perfetto del carisma perenne e soprattutto autosufficiente per spiegare ogni cosa. Poi naturalmente c'è il referendum, strumento perfetto di ogni meccanismo sommario. Come chiamarlo? Confermativo? Plebiscitario? Laudativo? Io direi gregario. Un sistema di acquiescenza e ratifica che governa meccanicamente un surrogato di consenso, richiesto e ottenuto in automatico ogni volta che c'è bisogno di dare una vernice comunitaria postuma alle improvvisazioni solitarie del Supremo Garante. Un referendum convocato in quattro e quattr'otto, svolto su due piedi come al circolo nautico o al club degli scacchi, attorno alla trovata di uno solo. Senza una discussione preparatoria, un confronto di idee, un dibattito aperto che consenta agli interni e agli esterni di conoscere non solo l'esito e il saldo finale, ma le ragioni di una proposta, il percorso di una scelta, rischi e opportunità, alternative possibili e i riflessi che tutte queste diverse opzioni possono avere sulla fisionomia pubblica del movimento. Tutto questo in nome di un altro demone originario: il segreto, figlio del complotto e della grande congiura, che naturalmente è sempre in atto e con tutto quel che succede nel mondo è concentrata sempre e solamente su Raggi e su Di Maio, e li fa perfidamente inciampare sui frigoriferi, sul Cile e il Venezuela. L'ultima invenzione è la congiura dell'"establishment" che Grillo ha evocato per dargli la colpa del trappolone europeo, in realtà fabbricato in casa. Come se in Italia esistesse una classe dirigente capace di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale, invece di singoli network gregari, concessionari e autogarantiti. Ma la congiura e il segreto fortificano lo spirito, trasformano la politica in fede, il movimento in setta, la trasparenza in confisca. Il referendum avviene su una piattaforma software privata di una società privata che gestisce la cosa più pubblica che c'è, vale a dire la proposta politica di un movimento, e conserva nomi e password degli iscritti nella mitica fondazione Rousseau come in uno scrigno segreto. Il segreto giustifica il vulnus di trasparenza, le decisioni europee prese in Kenya alle spalle dei deputati europei, perché gli eletti nel movimento hanno nei fatti un preciso e anticostituzionale vincolo di mandato, nei confronti del partito-moloch. (…). Nell'altrove, tutti gli eletti, tutti i dirigenti, tutti gli uomini nuovi sono in realtà semplicemente dei fiduciari del Capo: in altre epoche li avremmo chiamati portaborse, sottopancia, boiardi minori e periferici, con in più la sovrastruttura burocratico-statutaria della multa di 250 mila euro per chi dissente, come fanno le società di calcio con un qualsiasi centravanti chiacchierone o indisciplinato. Questo evidente pasticcio che parla di democrazia e pratica la teocrazia ha portato al capitombolo europeo con la ribellione dei liberali, convinti che la "cheap politics" di Grillo cozzi con tutto il loro armamentario ideale, visto che loro ne hanno uno, a cui tengono. Dice bene Ezio Mauro che “nell'altrove non esiste un'opinione pubblica interna, cui rendere conto”. È il male assoluto del bel paese, poiché se esistesse una “opinione pubblica” tante storture e tante brutture non avrebbero vita alcuna. Ha scritto Marco Follini in “Oblio” sull’ultimo numero del settimanale “L’Espresso” del 18 di aprile: (…). Nel suo derby infinito con la memoria, l’oblio sta segnando molti punti a suo vantaggio. Troppi, forse. Se dopo la seconda guerra mondiale e i suoi orrori l’impegno corale dei nostri padri consisteva nel ricordare, nel non rimuovere, nel fare i conti fino in fondo con quelle sofferenze e ingiustizie inaudite, ora invece il sentimento comune che attraversa il nostro animo pubblico sembra essere quello di scrollarci di dosso tutto quello che potrebbe evocare rancori, vendette, ostinazioni. Con le migliori intenzioni, s’intende. Ma anche con qualche insidia da cui si vorrebbe mettere in guardia. Nel mondo, la “cancel culture” che va per la maggiore inchioda i grandi del passato a responsabilità fin troppo onerose. E da Mozart a Churchill non c’è nessuno di quei grandi che sfugga alla ghigliottina della nostra memoria fuori dal tempo. Così cancelliamo i loro meriti e il loro stesso contesto, destinandoli a un oblio corrucciato e inutilmente severo. Nel piccolo giardino di casa nostra, le svolte si producono una dopo l’altra con il sottile e perfido intendimento di evitare che si ricordino con troppa cura le parole e i gesti di ieri o ieri l’altro avvalorando epifanie politiche piuttosto strumentali e di corto respiro. Così si cancella la storia nella sua complessità che invece andrebbe indagata. E si avvolge la politica nella trama delle sue convenienze di oggi contando che l’indomani se ne possa magari intessere un’altra di tutt’altro segno. Il fatto è che tra la memoria e l’oblio è possibile solo un pareggio. Un compromesso, per dirla con le parole della politica. Perdonare è da re, dimenticare è da sciocchi, recita la saggezza popolare. Noi invece dimentichiamo troppo facilmente e così non riusciamo mai a perdonare neppure i nostri meriti.

Nessun commento:

Posta un commento