Ha scritto di “lui” Francesco
Merlo il 21 di aprile dell’anno 2013 in “Aspettando
il capo invisibile”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (...). Un
vaffa detto prima può anche far ridere e persino pensare, pur nella sua
stupidità volgare, ma il vaffa detto dopo, (…), è il colpo di grazia, una botta
di remo sulla testa di un naufrago, lo sparo alla nuca su un corpo rantolante,
insomma è esattamente l'opposto della finezza di modi e della difesa dei
diritti elementari, soprattutto degli sconfitti, che si celebra negli
insegnamenti di quel sottile ed equilibrato giurista che è Stefano Rodotà. E
infatti Rodotà ieri per ben due volte si è dovuto dissociare dall'adunata
contro Napolitano e dal linguaggio eversivo di Grillo: «Si dissente nelle sedi
e nelle forme istituzionali» E dunque mentre a Roma ieri manifestavano nel suo
nome era evidente che è ai contrari di Stefano Rodotà che Beppe Grillo si
ispira. Per esempio a Maramaldo, il vile che uccideva un uomo morto, (…),
facendo saltare tutti i codici di guerra che sono fatti di onore e di rispetto
verso il vinto. E si ispira, sia pure in versione genovese, a Ciceruacchio,
quando conta il suo popolo a milioni di milioni e straparla di «fine della
democrazia», «giornata nera della repubblica». (…). Il “lui” di cui si
parla è divenuto d’un colpo l’uomo del giorno. Ha fatto oltremodo notizia,
esercizio che, da buon teatrante quale è, non ha mai disdegnato di praticare.
Lo è tanto teatrante da avere ispirato al vignettista Riccardo Mannelli la
bellissima ed al contempo atroce vignetta di oggi su “il Fatto Quotidiano”
nella quale gli fa invocare, nella sua perfida teatralità, d’essere arrestato
lui – “arrestate me” – al posto del figliuol prodigo suo, come se lo
stato di “diritto” fosse cosa ambigua, ondivaga, come il suo fare e disfare
nella politica del bel paese. Scriveva Ezio Mauro sempre di “lui” – “Grillo, la setta dell'altrove” – sul quotidiano
“la Repubblica” – del 12 di gennaio dell’anno 2017: (…). La politica è un po' più
complicata, a lungo andare, soprattutto negli intervalli tra una campagna
elettorale e l'altra: per fortuna non tutto è performance, blog, comizio, una
volta ogni tanto bisogna trasmettere l'idea che oltre a distruggere si è capaci
anche di costruire qualcosa. L'Europa, poi, è complicata ancor di più. Esistono
famiglie politiche, perché esistono vicende storiche e civili che hanno
selezionato interessi, valori e persino personalità producendo cultura politica
(mi scuso per l'espressione fuori moda): e da quella cultura, semplicemente,
sono nate le costituzioni e le istituzioni nelle quali viviamo - potremmo dire
- nelle difficoltà degli uomini ma nella libertà del sistema, in questo nostro
lungo dopoguerra europeo di pace. Bene, se questa è la cornice, il quadro non è
solo un infortunio senza precedenti, da inserire per anni nei repertori comici
in teatro, per far ridere la platea. È la conferma di una mancanza di sostanza,
di qualità e addirittura di significato politico. Qui succede che un movimento
nasce contro l'euro e contro l'Europa, oltre che contro tutte le inefficienze,
le disfunzioni e le corruzioni della nostra democrazia indigena. Entra nel
gruppo antieuropeista di Farage, campione della Brexit e dell'insularità
britannica. Poi, dopo uno stage sul bordo-piscina di Briatore a Malindi, ecco
la rivelazione keniota del fondatore, l'idea che per prepararsi a governare
conviene abbandonare alleati così radicali, e spostarsi in un'area più
tranquillizzante. I liberali? Perché no, vanno bene come qualsiasi opzione che
non costringa a scegliere davvero tra destra e sinistra, per non dividere il
fascio di consensi. La post-modernità della post-politica è questa: mani
libere, destra e sinistra sono superate, il nuovo vive in un altrove indistinto
che si può manipolare a piacere e abitare con comodo, interpretandolo come una
pièce che si aggiorna di piazza in piazza, secondo l'estro del capocomico. Il
fatto di aver ironizzato sui liberali per anni e di aver polemizzato
ripetutamente con loro non conta, perché tanto nell'altrove non esiste
un'opinione pubblica interna, cui rendere conto. Anzi, la giravolta è
diversità, la diversità è libertà, e libertà significa semplicemente che il
Capo fa quel che vuole. Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto
nessuna passione: politica, storica, culturale, capace di dare anima e corpo ai
diversi apparentamenti europei del movimento, di delineare una visione, una
prospettiva identitaria, qualcosa di riconoscibile e riconosciuto, un modello
di riferimento. L'altrove non ha modelli, se non l'idea originaria del leader,
soggetta a colpi di vento o di sole africani, ma per definizione esatta,
innocente, intatta nel cerchio perfetto del carisma perenne e soprattutto
autosufficiente per spiegare ogni cosa. Poi naturalmente c'è il referendum,
strumento perfetto di ogni meccanismo sommario. Come chiamarlo? Confermativo?
Plebiscitario? Laudativo? Io direi gregario. Un sistema di acquiescenza e
ratifica che governa meccanicamente un surrogato di consenso, richiesto e
ottenuto in automatico ogni volta che c'è bisogno di dare una vernice
comunitaria postuma alle improvvisazioni solitarie del Supremo Garante. Un
referendum convocato in quattro e quattr'otto, svolto su due piedi come al
circolo nautico o al club degli scacchi, attorno alla trovata di uno solo.
Senza una discussione preparatoria, un confronto di idee, un dibattito aperto
che consenta agli interni e agli esterni di conoscere non solo l'esito e il
saldo finale, ma le ragioni di una proposta, il percorso di una scelta, rischi
e opportunità, alternative possibili e i riflessi che tutte queste diverse
opzioni possono avere sulla fisionomia pubblica del movimento. Tutto questo in
nome di un altro demone originario: il segreto, figlio del complotto e della
grande congiura, che naturalmente è sempre in atto e con tutto quel che succede
nel mondo è concentrata sempre e solamente su Raggi e su Di Maio, e li fa
perfidamente inciampare sui frigoriferi, sul Cile e il Venezuela. L'ultima
invenzione è la congiura dell'"establishment" che Grillo ha evocato
per dargli la colpa del trappolone europeo, in realtà fabbricato in casa. Come
se in Italia esistesse una classe dirigente capace di coniugare gli interessi
particolari legittimi con l'interesse generale, invece di singoli network
gregari, concessionari e autogarantiti. Ma la congiura e il segreto fortificano
lo spirito, trasformano la politica in fede, il movimento in setta, la
trasparenza in confisca. Il referendum avviene su una piattaforma software
privata di una società privata che gestisce la cosa più pubblica che c'è, vale
a dire la proposta politica di un movimento, e conserva nomi e password degli
iscritti nella mitica fondazione Rousseau come in uno scrigno segreto. Il
segreto giustifica il vulnus di trasparenza, le decisioni europee prese in
Kenya alle spalle dei deputati europei, perché gli eletti nel movimento hanno
nei fatti un preciso e anticostituzionale vincolo di mandato, nei confronti del
partito-moloch. (…). Nell'altrove, tutti gli eletti, tutti i dirigenti,
tutti gli uomini nuovi sono in realtà semplicemente dei fiduciari del Capo: in
altre epoche li avremmo chiamati portaborse, sottopancia, boiardi minori e
periferici, con in più la sovrastruttura burocratico-statutaria della multa di
250 mila euro per chi dissente, come fanno le società di calcio con un
qualsiasi centravanti chiacchierone o indisciplinato. Questo evidente pasticcio
che parla di democrazia e pratica la teocrazia ha portato al capitombolo
europeo con la ribellione dei liberali, convinti che la "cheap
politics" di Grillo cozzi con tutto il loro armamentario ideale, visto che
loro ne hanno uno, a cui tengono. Dice bene Ezio Mauro che “nell'altrove
non esiste un'opinione pubblica interna, cui rendere conto”. È il male assoluto
del bel paese, poiché se esistesse una “opinione pubblica” tante storture e
tante brutture non avrebbero vita alcuna. Ha scritto Marco Follini in “Oblio” sull’ultimo numero del
settimanale “L’Espresso” del 18 di aprile: (…). Nel suo derby infinito con la memoria,
l’oblio sta segnando molti punti a suo vantaggio. Troppi, forse. Se dopo la
seconda guerra mondiale e i suoi orrori l’impegno corale dei nostri padri consisteva
nel ricordare, nel non rimuovere, nel fare i conti fino in fondo con quelle
sofferenze e ingiustizie inaudite, ora invece il sentimento comune che
attraversa il nostro animo pubblico sembra essere quello di scrollarci di dosso
tutto quello che potrebbe evocare rancori, vendette, ostinazioni. Con le
migliori intenzioni, s’intende. Ma anche con qualche insidia da cui si vorrebbe
mettere in guardia. Nel mondo, la “cancel culture” che va per la maggiore
inchioda i grandi del passato a responsabilità fin troppo onerose. E da Mozart
a Churchill non c’è nessuno di quei grandi che sfugga alla ghigliottina della
nostra memoria fuori dal tempo. Così cancelliamo i loro meriti e il loro stesso
contesto, destinandoli a un oblio corrucciato e inutilmente severo. Nel piccolo
giardino di casa nostra, le svolte si producono una dopo l’altra con il sottile
e perfido intendimento di evitare che si ricordino con troppa cura le parole e
i gesti di ieri o ieri l’altro avvalorando epifanie politiche piuttosto
strumentali e di corto respiro. Così si cancella la storia nella sua
complessità che invece andrebbe indagata. E si avvolge la politica nella trama
delle sue convenienze di oggi contando che l’indomani se ne possa magari
intessere un’altra di tutt’altro segno. Il fatto è che tra la memoria e l’oblio
è possibile solo un pareggio. Un compromesso, per dirla con le parole della
politica. Perdonare è da re, dimenticare è da sciocchi, recita la saggezza
popolare. Noi invece dimentichiamo troppo facilmente e così non riusciamo mai a
perdonare neppure i nostri meriti.
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