"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 25 aprile 2021

Eventi. 42 «“25 aprile. Resistenza: storia di una parola”».

A lato. Squadra di partigiani della 36esima “Brigata Garibaldi” nelle Langhe (1944-’45).

Tratto da “25 aprile. Resistenza: storia di una parola” di Giacomo Papi, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di aprile 2021:

La parola Resistenza da bambino mi sembrava bellissima, ma anche un po’ sbagliata. Preferivo Liberazione, oppure Cacciata, Rinascita, Risorgimento, perché dopo la notte o la morte si risorge mentre si resiste a qualcosa di brutto che accade o a un cattivo che ti invade per farti del male. Invece i fascisti in Italia comandavano da vent’anni e i nazisti li aveva fatti entrare Mussolini quando era ancora al potere. Perché allora si usava una parola che descriveva più una lotta per impedire il male che per produrre il bene? Chi lo aveva deciso? Oggi so che benché alla questione abbiano accennato grandi storici come Claudio Pavone, Paolo Spriano e Nicola Matteucci, molte risposte si trovano in un breve studio intitolato Resistenza e termini affini nel lessico politico degli anni 1943-1945 e del dopoguerra pubblicato nel 1994 sulla rivista Lingua nostra, e oggi purtroppo introvabile. Dopo avere a lungo scartabellato negli archivi, l’autore, Riccardo Tesi, professore di Storia della lingua italiana all’Università di Bologna, è riuscito a mandarmelo. A scrivere di resistenza per primo, ma senza maiuscola, è Pietro Nenni: «Si tratta di sapere», scrive nel 1936 sul Nuovo Avanti in piena Guerra di Spagna «se volendo la resistenza al fascismo non bisogna volere gli strumenti della resistenza». Ma il primo a diffonderla davvero — «l’onomaturgo», lo definisce Tesi — è il generale Charles De Gaulle che il 18 giugno 1940, dopo la resa di Pétain a Hitler, parlando alla radio della BBC, inneggia alla «flamme de la Résistance française». Dalla Francia per interposta Inghilterra, la parola emigra in Italia, ancora grazie a Nenni — che viveva in Francia come molti altri antifascisti — e arriva a comunisti, cattolici, azionisti e membri di Giustizia e libertà. Dopo l’8 settembre 1943 la parola resistenza dilaga, senza però diventare egemone. A essere restii sono i comunisti, che pure la usano: nel 1943 Palmiro Togliatti distingue tra «resistenza popolare» e «lotta dei partigiani» e Luigi Longo su La nostra lotta insiste sull’azione: «Si tratta per il nostro partito non solo di resistere, ma di lottare attivamente, decisamente, con continuità, sino alla completa liberazione del nostro territorio dalle orde hitleriane e dai briganti fascisti». Dal 1944 i comunisti, quindi nelle Brigate Garibaldi, ma non solo loro, preferiscono espressioni più attive. Il sintagma più diffuso è Guerra di liberazione nazionale, ma sono frequenti anche lotta, battaglia, movimento, guerriglia, e risuonano echi mazziniani, come moto, indipendenza, insurrezione, cospirazione, perfino Secondo Risorgimento. C’è chi parla perfino di Guerra civile - espressione che gli storici italiani avrebbero ammesso solo a partire dal 1990 grazie a Claudio Pavone e Gian Enrico Rusconi -, perfino come sinonimo di civilizzato e contrario di incivile. La guerra che accade, cioè, non ha una sola parola. Come non ne ha chi la combatte. Partigiano, per esempio, si diffonde dopo un discorso di Stalin del 1941, ma per tutto il conflitto deve vedersela con guerrigliero, insorto, ribelle e soprattutto patriota. Nenni arriva a usare “macchiaiuolo”, traducendo dal francese “maquisard”, chi si è dato alla macchia. Il partigiano Johnny, uscito nel 1968, non è un titolo di Beppe Fenoglio, ma di Garzanti. È come se parallelamente alla guerra vera contro i nazifascisti, si sia combattuta un’altra battaglia per dare i nomi alla guerra, un conflitto clandestino e in parte inconsapevole. Almeno fino al 25 aprile 1945. Per Riccardi Tesi dopo la Liberazione gli alleati battono sulla parola Resistenza con il preciso intento di ricondurre la lotta italiana nell’insieme delle resistenze europee occidentali, allontanandola quindi dall’influenza anche linguistica dell’Urss. E infatti, dopo il 25 aprile, la parola Resistenza invade i documenti della Dc e delle altre forze politiche. La “Resistenza” entra ufficialmente nel vocabolario italiano il 23 maggio 1945 nell’Ordine del giorno firmato dai sei partiti del Cnl. Ma quando la parola diventa identitaria, la battaglia diventa consapevole. L’ultima resistenza, ancora una volta, è dei comunisti che smettono in massa di usarla. È un silenzio intenzionale che intende affermare il senso rivoluzionario della Liberazione e che si protrae fino al 25 febbraio 1949 quando, parlando alla Camera, Luigi Longo accusa le altre forze di avere vilipeso i valori della Resistenza. Il Pci sceglie, cioè, di ergersi a difensore della parola tradita, proclamando simbolicamente la propria fedeltà alla Repubblica e accettando la nostalgia per una rivoluzione che non ci sarebbe più stata. Invece di combattere, il popolo ha resistito: lo scrivono Paolo Monelli in Roma 1943 ed Elio Vittorini in Uomini e no: «Resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere…». Nella prefazione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, pubblicato da Einaudi nel 1952, Enzo Enriques Agnoletti scrive: «Non dimentichiamo mai che non è stata una resistenza, ma è stata un attacco, una iniziativa, una innovazione ideale, non un tentativo di conservare qualcosa». Le parole sono elastiche, non ci mettono molto a cambiare significato. Sono gli uomini a farle parlare in base alla storia. Negli anni la parola Resistenza si è caricata di connotazioni di eroismo e azione lontane dal significato originario. Forse però i primi significati delle parole non si spengono mai del tutto, continuano a lottare nell’ombra e a resistere in clandestinità, cercando di riportare le parole a quello che erano da giovani. Mi chiedo, cioè, se la parola Resistenza non abbia influenzato in segreto il modo con cui ci siamo abituati a percepire l’avversario politico, pensandolo come un invasore, un intruso da scacciare e a cui «resistere resistere resistere». E se questa sia una debolezza oppure una forza. Mi chiedo se non sia stata la Resistenza a farci credere che basti resistere al peggio, più che immaginare il meglio. La parola Resistenza, però, dice anche una cosa preziosa che ha a che fare con l’attenzione, dice che nulla è conquistato per sempre perché tutto può disperdersi e sgretolarsi di nuovo.

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