Giusto
un anno addietro appariva sul quotidiano “la Repubblica” di mercoledì 15 di
aprile un pezzo a firma di Ezio Mauro – “Dov’è
l’Europa dell’audacia” –, senza l’interrogativo. Si era nel bel mezzo del
nostro “cammino” attraverso la pandemia. Si era nel pieno del primo lockdown. A
quel tempo non erano assurti ancora alla gloria gli “aperturisti senza se e
senza ma”. Dopo quel tempo andato, che sembra remoto chissà quanto, lo sport
prediletto dalla politica di oggi annichilita per la sua inanità e per la sua evidente,
accettata inadeguatezza è quello di stabilire a “priori”, o come preferiva il “principe”
della comicità “a prescindere”, le date più prossime di ri-“aperture” o di ri-”partenze”.
E tutti giù a discettare sull’ameno argomento nel mentre quelli che continuano
a lasciarci in gran numero se ne vanno nell’indifferenza dei più, in altri
mestieri impegnati. Ne ha scritto proprio oggi Michele Serra sul quotidiano “la
Repubblica” – “Un carcere senza
carcerieri” -: Conoscete una sola persona, dico una sola, che non desideri che tutto
riapra? Che non veda l'ora di tornare al ristorante, dal parrucchiere, in
palestra, al bar, al cinema, a teatro, alla recita scolastica, allo stadio,
eccetera? Io no. Non ne conosco una, di persona, che non speri che tutto
riapra, e al più presto: qualunque lavoro faccia, qualunque idea politica
abbia. Perché, dunque, ci sono politici e agitatori di piazza che parlano della
riapertura come di un diritto negato dalle Forze Oscure della Chiusura? Come di
una libertà da rivendicare in faccia a qualcuno che la osteggia per puro
spirito repressivo, magari per sadismo? Esiste forse qualcuno che può
compiacersi di questa sventura, speculare sulla rovina economica di molte
categorie, programmare con sadismo la clausura dei bambini e dei ragazzi?
Esiste, nel mondo, un partito o una consorteria o una mente malata che abbia
potuto concepire e poi gestire questa mezza carcerazione dell'umanità? Esiste,
insomma, qualcuno che parteggi per la clausura, e speri di procrastinarla il
più a lungo possibile? Se non esiste questo qualcuno; se dunque le serrande
abbassate, le casse vuote, la penosa rinuncia alla normalità sono l'effetto
oggettivo di una catastrofe comunque non inedita nella storia umana, e anzi,
rispetto alle precedenti, accolta con qualche soccorso sanitario ed economico
in più; allora "vogliamo riaprire" non può essere uno slogan da
urlare contro questo e contro quello. Perché "vogliamo riaprire" non
è una rivendicazione, è la speranza più condivisa al mondo. La pandemia è un
carcere senza carcerieri, inutile additarli all'odio della folla: non ci sono. Scriveva
Ezio Mauro quel 15 di aprile dell’anno 2020: (…). Negli ultimi anni abbiamo
dovuto fronteggiare la crisi finanziaria più pesante dal 1929, un attacco
terroristico senza precedenti sui nostri territori da parte del jihadismo, una
contrazione del lavoro che taglia occupazione, un'ondata migratoria che ha
investito tutto il Sud del continente. Tutti questi fenomeni rappresentano,
ognuno per sé, un'eccezione, cioè una rottura dei parametri dentro i quali i
Paesi esercitano una normale azione di governo, per assumere una dimensione
straordinaria. Presi tutti insieme, confermano la difficoltà della politica a
tenere sotto controllo le dinamiche d'emergenza che la interpellano e le chiedono
di intervenire, perché i cittadini si sentono esposti e non tutelati. La
caratteristica comune di tutte queste crisi d'eccezione è la loro dimensione
sovranazionale, che come tale richiederebbe un'azione di contrasto da parte di
un'autorità adeguata, che non esiste, e di una sovranità da esercitare in una
dimensione addirittura continentale, che manca. C'è di più. Le crisi sono
sovranazionali e operano come tali, ma scaricano i loro effetti sul territorio
degli Stati nazionali, spingendo necessariamente i cittadini a rivolgersi ai
governi e ai Parlamenti dei loro Paesi per chiedere una risposta e una garanzia
che nella dimensione nazionale non può venire, e sarà comunque sempre
insufficiente e dunque insoddisfacente, generando delusione, solitudine e risentimento
politico. Il virus sta portando a compimento questo disegno (e si era
solamente al 15 di aprile dell’anno 2020 n.d.r.), potenziandolo al massimo grado.
La crisi, infatti, per la prima volta si fa totale e universale, mentre raduna
in sé tutte le crisi precedenti, aggravandole in una partita di vita e di morte.
Nasce come emergenza sanitaria, si biforca in emergenza sociale con le città
vuote e i cittadini chiusi in casa, sta diventando emergenza economica con la
produzione bloccata ovunque, precipiterà inevitabilmente in emergenza del
lavoro, con posti, ruoli e salari bruciati per sempre: ed è già, naturalmente,
emergenza culturale, perché tutto ciò ha cambiato il nostro modo di vivere. Dovrebbe
ormai essere chiaro a tutti che il nazionalismo sovranista è il primo soggetto
politico ad essere messo fuori gioco da questa emergenza finale, perché
pretende di risolvere da solo, nel chiuso del Paese, una pandemia mondiale che
per la prima volta minaccia l'insieme del genere umano, su tutto il pianeta. Ma
è chiaro anche che le democrazie per mantenere il consenso devono produrre
risultati concreti, prima di tutto nella sicurezza dei cittadini. Oggi proprio
la portata della crisi chiede una scala politica diversa, che prenda in mano le
sorti dei singoli Stati attraverso il governo dell'Europa, dialogando a pari titolo
con Stati Uniti, Cina e Russia per cercare soluzioni: prima per fermare
l'infezione, poi per trovare il vaccino, quindi per ammortizzare il crollo
economico-produttivo e sostenere il lavoro, infine per costruire un modello di
sviluppo diverso. Non è dunque solo un problema di Eurobond che la Ue deve
affrontare nel vertice del 23 aprile, e nemmeno - anche se dirlo dall'Italia
può sembrare una bestemmia - un problema di semplice solidarietà. Spinelli
diceva che la solidarietà è politica, è la coscienza dell'Europa. Oggi il vero
problema è di ambizione da parte dell'Europa, di coscienza di sé. Il presidente
francese Macron dice che ci vuole più "audacia", il presidente
tedesco Steinmeier avverte i suoi concittadini che la Germania uscirà dalla crisi
forte e sana "solo se i nostri vicini saranno anche loro sani e
forti", e indica la bandiera europea come il simbolo e la conferma di
questo impegno. Alla fine, con ogni probabilità, un fondo di rinascita aiuterà
la ricostruzione europea, con 1000-1500 miliardi finanziati da bond emessi
dalla Commissione e garantiti dagli Stati membri. Sarebbe già molto, un
principio di mutualizzazione e federalizzazione, nell'interesse comune. Ma
serve ancora di più: sarebbe una grande occasione perduta se al piano di
ricostruzione europea non si accompagnasse un progetto ri-costituente
dell'Unione, capace di dare più potere al Parlamento e più potere alla
Commissione. L'Italia non deve chiedere un'elemosina all'Europa, ma un'Europa
più forte.
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