In materia di correttezza e di responsabilità.
Scriveva Marco Travaglio in “Scilirenzi”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’8 di febbraio dell’anno 2015: (…).
Renzi è sempre stato molto (…) tranchant: chiunque cambi partito deve
dimettersi ipso facto da parlamentare per non tradire i suoi elettori. Lo disse
la prima volta nel febbraio 2010, in un dibattito a Porta a Porta che spopola
sul web, quando spiegò a Paola Binetti che aveva appena mollato il Pd per l’Udc
insieme a Enzo Carra e a Dorina Bianchi: “La tua posizione, di Carra e altri è
rispettabile, ma dovevate avere il coraggio di dimettervi dal Pd e dal
Parlamento, perché non si sta in Parlamento coi voti presi dal Pd per andare
contro il Pd. È ora di finirla con chi viene eletto con qualcuno e poi passa di
là. Vale per quelli di là, per quelli della sinistra, per tutti. Se c’è
l’astensionismo è anche perché se io prendo e decido di mollare con i miei,
mollo con i miei – è legittimo farlo, perché non me l’ha ordinato il dottore –
però ho il coraggio anche di avere rispetto per chi mi ha votato, perché chi mi
ha votato non ha cambiato idea”. Un anno dopo, ribadì: “Io non esco dal Pd
nemmeno se mi cacciano, non sono mica uno Scilipoti. Se uno smette di credere
in un progetto politico, non deve certo essere costretto con la catena a stare
in un partito. Ma, quando se ne va, deve fare il favore di lasciare anche il
seggiolino” (22 febbraio 2011). Parole
sante, che a risentirle spiegano perché il sindaco Renzi fu subito avvertito
come un politico nuovo e diverso e potè iniziare la sua irresistibile ascesa
verso il Nazareno e Palazzo Chigi. Parole che, se fosse un filo coerente,
avrebbe dovuto ripetere alla fila di poltronisti in fuga dai Titanic di B. e di
Monti che si accalcano alla sua porta: “Benvenuti nel Pd, ma prima dovete
dimettervi dal Parlamento e lasciare il seggiolino: voi potete aver cambiato
idea, ma i vostri elettori no”. Invece li ha fatti entrare tutti, salutati
dalla Boschi come “valori aggiunti” e nobilitati dall’ex cossighiano Naccarato
(Gal) come “stabilizzatori”, mentre il Corriere titola soavemente “Renzi amplia
il Pd” manco fosse un’impresa edile dopo il piano-casa. Non è solo una questione
di coerenza, ma di rappresentanza. I voltagabbana servono a Renzi per creare
una maggioranza artificiale che è minoranza nel Paese e far passare l’Italicum
e il nuovo Senato, che ci darebbero un Parlamento con almeno 500 nominati su
730. Senza il premio di maggioranza illegittimo di 148 parlamentari che il
Porcellum ha regalato al centrosinistra prima di essere raso al suolo dalla
Consulta, infatti, il governo Renzi non sarebbe mai nato per mancanza di
numeri. Ora il premier mai eletto si fabbrica – con metodi banditeschi a suo
tempo denunciati pure da lui – una maggioranza incostituzionale per aggirare
una sentenza della Corte costituzionale. Si spera vivamente in un sussulto di
Sergio Mattarella e della sua schiena dritta. Tratto da “Genealogia di una catastrofe” di
Massimo Cacciari, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 14 di marzo 2021:
(…).
La domanda potrebbe essere così formulata: perché il Pd non è mai nato? Che
questo sia un fatto nessuno potrebbe dubitarlo dopo le dichiarazioni di Zingaretti.
Dal momento della sua fondazione il Pd non è stato che un succedersi di
tentativi falliti. Perché? Per l’inettitudine dei suoi attori? Si trattava di
un buon testo che è stato recitato pessimamente? Cambiati gli attori, scovati
quelli adatti al ruolo e ben motivati a portare l’opera al successo, il
problema sarebbe risolto? Il Pd non è mai nato perché nulla può nascere da
energie esaurite. Un mare mai prima percorso si era aperto con la caduta del
Muro e le navicule antiche non potevano bastare. Aggiustate, rammendate,
rammodernate sono giunte, invece, al Pd, così da non essere né atte alla nuova
tempestas, né riconoscibili da chi un tempo vi si era affidato. Alla sempre più
stanca ripetizione dei motivi, nobilissimi un tempo, del welfare socialdemocratico,
corrispondevano i sogni di un moroteismo postumo - a entrambi, nipotini del
“compromesso storico”, si opponevano, pretendendo di abitare nella stessa
dimora, gli alfieri di una prospettiva liberal-liberista, del tutto subalterna
alle ideologie allora vincenti intorno alle meravigliose e progressive sorti
della globalizzazione economico-finanziaria. Per tutti si trattava, nella
sostanza, null’altro che di aggiustare la propria linea, adattandosi alle
mutate condizioni. Una rincorsa del proprio tempo, o presunto tale. Una
affannosa ricerca di apparire al suo passo, “moderni” - nell’organizzazione,
nell’immagine del leader, nel “disincanto” con cui affrontare le nuove potenze
del mondo globale - e perciò in costante inseguimento dell’ora. In tutte le componenti
che decidono di dar vita al Pd, pur in forme specifiche a ognuna, la stessa
assenza di pensiero critico, di un pensiero, cioè, all’altezza della crisi che
aveva spazzato via il mondo di ieri. Né socialisti né popolari comprendono la
corrispondenza storica tra le politiche di welfare classicamente keynesiane e
un determinato assetto dell’industria e della composizione sociale. Emergono
figure di lavoro autonomo e dipendente, confuse tra loro, di lavoro precario,
di sotto-occupazione che esigono tutela e rappresentanza sindacale e politica
impossibili nelle forme tradizionali. Per farvi fronte non sembra praticabile
che la via del crescente indebitamento. E questo produce l’autentica bancarotta
generazionale che stiamo vivendo. La montagna del debito, chiaramente
inestinguibile, produce un vero e proprio asservimento delle generazioni
future, una loro universale dipendenza dall’impersonale Mercato. Per combattere
questa catastrofe le culture politiche tradizionali si trovano del tutto
impreparate: quella socialdemocratica persegue nei fatti una linea di
assistenzialismo in deficit, quelle popolari e liberali si barcamenano intorno
ad una, complementare in fondo, fatta di austerità moderata o di “solidarietà
austera”. Non si punta sull’autonomo spirito di impresa, sui settori che
guideranno la riconversione globale delle nostre economie, sulla scuola, sulla
formazione. Si dilapidano, invano, immense risorse per fingere di salvare
strutture industriali, nascondendone o ritardandone il fallimento, e non il reddito
e la qualità di vita delle persone che loro malgrado vi lavoravano. Ma è uno,
fondamentale, il problema che i fondatori del mai nato Pd non sanno affrontare.
Il problema cui tutti gli altri si collegano logicamente prima ancora che
politicamente. La riforma delle riforme è quella dello Stato. L’avevano pur
capito alcuni illustri Mentori di Pci e Dc: le risorse per lo sviluppo, per la
difesa dei redditi più bassi, per creare l’humus in cui nascano nuove imprese e
nuove professioni, non possono più venire da sensibili incrementi del gettito
fiscale (lotta strenua all’evasione, benissimo - ma, contemporaneamente, si
dovranno ridurre i livelli intollerabili dell’imposizione a chi paga), e non
devono venire da ulteriori aumenti del debito. Soltanto un radicale,
complessivo riassetto della struttura istituzionale, burocratica,
amministrativa le garantirà. Dall’elefantiaco apparato ministeriale, che di
anno in anno vede aumentare i fondi disponibili, ai catafalchi centralistici
delle Regioni; dall’inflazione legislativa con relativa confusione di
competenze tra i diversi livelli dello Stato, alla miriade di organismi
inutili, che sopravvivono a se stessi - non si tratta di sprechi semplicemente,
ma di una situazione che impedisce o blocca e frena ogni nuova impresa, ogni
investimento. Su questa materia, sulla riforma dello Stato, tutte le componenti
che hanno dato vita al Pd si sono mostrate essenzialmente conservatrici. Quando
hanno proposto qualcosa, lo hanno fatto senza quella radicalità che la
situazione storica impone, e alla fine hanno pasticciato invece che riformato.
Ultimo capitolo di questa triste istoria, il referendum renziano. Le nuove
generazioni da tutto potranno essere attratte fuorchè da una politica di
conservazione. Senza una visione di riforma che abbia questa ampiezza, non può
riprendersi la sinistra italiana né il Pd. O la loro azione si muove in questa
prospettiva, verso questo “fuoco”, o continuerà a disperdersi per centomila
mediazioni e compromessi, con il solo risultato di ritardare il definitivo
tramonto. È perfettamente inutile, se non ipocrita, denunciare la dilagante
presenza di “poltronari” nel gruppo dirigente del partito, se quella genealogia
che ho sommariamente indicato non viene messa in discussione. Un partito di
mediazione e compromesso non può che generare la classe dirigente che tutta
insieme, in solido, le parole di Zingaretti hanno “suicidato”.
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