L’immagine che accompagna questo post è del
fotografo danese Mads Nissen. Essa è stata premiata come “foto dell’anno” nel
concorso internazionale “World Press
Photo of the Year”. È stata scattata il 5 di agosto dell’anno 2020 in una
struttura di accoglienza per anziani di San Paolo del Brasile. In essa viene ritratta
l’anziana signora Rosa Luzia Lunardi – ottantanovenne, ospite della struttura –
abbracciata, in uno slancio di affetto mancato, ad una operatrice sanitaria. Per
non dimenticare. Tratto da “Non se ne
sono andati” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del
20 di dicembre dell’anno 2020: (…). Più in là col tempo, mesi e mesi di
virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla
perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei
dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie,
dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito
a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo,
nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti
italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la
storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più
grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e
luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la
regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di
convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può
più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non
vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche
secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati,
l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera
della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo
stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la
tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta,
accecarci mentre vediamo la scena - questo no, non ce lo aspettavamo. «L’immagine
dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere
più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più
grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime
settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha
trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della
pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero
subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti,
noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque
dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il
pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini
che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci
con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello
stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia.
Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca
infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori
privilegiati. (…). I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in
silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno
chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo
funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e
dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto
continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a
Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e
muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai
prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di
una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri
inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorietà del tempo,
rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a
rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia
planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle
macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a
manifestarsi con i caratteri della modernità. La bomba ieri, come il virus
oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono
l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È
un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi
dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male,
sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non
vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i
quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata
essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità
nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta
l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme
radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la
realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi afflitti dal male, è
nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago
dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i
sarcofaghi dei deceduti... Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto
ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace
ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa
immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della
dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I
camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i
crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a
noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai
andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci
sarà sempre. Vengono a confortarci, i nostri morti tornati vivi, le amiche e
gli amici che sembravano perduti hanno la voce tremula e il sorriso dei bimbi.
Debolmente in tinte pastello la notte sfinisce in un azzurro tenue, perché è
questo che speriamo e questo ci è stato promesso. Se vediamo la morte, se ne
intendiamo le parole, non la assaggeremo: così dice un detto, antico come le
ipotesi più ardite. I morti si risvegliano, si estasiano, rifioriscono. Lo
fanno nell’anno di grazia 2020, il più dolce anno: dolce perché ci siamo
scoperti fratelli e sorelle. Ci siamo scoperti, fratelli e sorelle. Essi
tornano vivi e dicono: «Veniamo con una preghiera diversa, una preghiera per
voi viventi. La nostra lingua è dolce e pronunciata come in forma di sogno,
perché ricolma di amore per voi. Nessuno di noi era abituato a tanto amore.
Siamo venuti per dirvi questo: non abbiate paura. Prima abbiatela, ma poi non
abbiate paura. Noi non siamo costretti in quanto siete stati costretti a
immaginare di noi: noi soli nell’ospedale. Non siamo mai stati isolati, perché
già pronunciavamo le sillabe di una preghiera per voi, per lenirvi gli affanni,
perché vi ritenente viventi e siete bambine e bambini. Era preziosa la
bottiglietta d’acqua sul comodino e abbiamo ricordato gli abbagli del sole
riflesso nel vetro e il grande albero di tiglio che germogliava nei giardini dell’infanzia
di tutti. All’ultimo respiro, abbiamo invocato la mamma, il papà. Siamo
cresciuti anche noi, come voi, con il privilegio di avere un mondo, alte
cattedrali, luoghi sicuri per meditare che cosa eravamo chiamati a fare.
Abbiamo stretto le più dolci carni, ai figli abbiamo dato tutto, tutto. Siamo
stati in silenzio e anche abbiamo sussurrato, abbiamo anche gridato. La fatica
di anno in anno era un piacere che i filosofi non hanno saputo apprezzare. È
così bello vedervi, pensarvi. Ci siamo, è vero, distaccati. L’uomo che si è
distaccato da se stesso è così puro che il mondo non può sopportarlo. Se la
sola preghiera che direte mai nella vostra intera vita è “grazie”, quella sarà
sufficiente. Noi vi ringraziamo. Siamo tornati a dirvelo. Se vi dicessero che
domani è l’ultimo giorno dell’universo, voi piantereste oggi un albero di melo.
Di mese in mese avete ricoperto la nostra memoria di affetto - non di economia,
ma di affetto. Siamo sempre qui. Siamo sempre. Abbiamo scoperto quanto respiro
si allarga all’apparente fine di ogni respiro. La nostra oppressa e devastata
Terra “geme e soffre le doglie del parto”. Quello che avete pensato dolore era
la sofferenza del parto. Fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la
nostra Terra, dove abbiamo vissuto in forma di bambini. Il creato risulta
compromesso dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme di tutte le
cose è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. Non
abbiamo mai smesso di essere vivi, perché ci è stato insegnato a vedere noi
stessi e le cose del mondo. Ogni padre vi abbraccia, ogni madre, ogni figlio e
figlia. Nessuno è andato perduto. Soltanto voi potete perdervi, già forse vi
state perdendo. Ma poi sarete ritrovati, vi ritroverete. Tutti voi siete i nostri
nati. Ogni cosa è pace. Vi ascoltiamo nelle vostre penombre, mentre attendete
al vostro lavoro quotidiano e all’amore. C’è luce ed è bellissimo...».
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