"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 17 aprile 2021

Virusememorie. 71 «Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo resi inermi nei nostri appartamenti italiani».

 

L’immagine che accompagna questo post è del fotografo danese Mads Nissen. Essa è stata premiata come “foto dell’anno” nel concorso internazionale “World Press Photo of the Year”. È stata scattata il 5 di agosto dell’anno 2020 in una struttura di accoglienza per anziani di San Paolo del Brasile. In essa viene ritratta l’anziana signora Rosa Luzia Lunardi – ottantanovenne, ospite della struttura – abbracciata, in uno slancio di affetto mancato, ad una operatrice sanitaria. Per non dimenticare. Tratto da “Non se ne sono andati” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 20 di dicembre dell’anno 2020: (…). Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati, l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta, accecarci mentre vediamo la scena - questo no, non ce lo aspettavamo. «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti, noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia. Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori privilegiati. (…). I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorietà del tempo, rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a manifestarsi con i caratteri della modernità. La bomba ieri, come il virus oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male, sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi afflitti dal male, è nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i sarcofaghi dei deceduti... Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci sarà sempre. Vengono a confortarci, i nostri morti tornati vivi, le amiche e gli amici che sembravano perduti hanno la voce tremula e il sorriso dei bimbi. Debolmente in tinte pastello la notte sfinisce in un azzurro tenue, perché è questo che speriamo e questo ci è stato promesso. Se vediamo la morte, se ne intendiamo le parole, non la assaggeremo: così dice un detto, antico come le ipotesi più ardite. I morti si risvegliano, si estasiano, rifioriscono. Lo fanno nell’anno di grazia 2020, il più dolce anno: dolce perché ci siamo scoperti fratelli e sorelle. Ci siamo scoperti, fratelli e sorelle. Essi tornano vivi e dicono: «Veniamo con una preghiera diversa, una preghiera per voi viventi. La nostra lingua è dolce e pronunciata come in forma di sogno, perché ricolma di amore per voi. Nessuno di noi era abituato a tanto amore. Siamo venuti per dirvi questo: non abbiate paura. Prima abbiatela, ma poi non abbiate paura. Noi non siamo costretti in quanto siete stati costretti a immaginare di noi: noi soli nell’ospedale. Non siamo mai stati isolati, perché già pronunciavamo le sillabe di una preghiera per voi, per lenirvi gli affanni, perché vi ritenente viventi e siete bambine e bambini. Era preziosa la bottiglietta d’acqua sul comodino e abbiamo ricordato gli abbagli del sole riflesso nel vetro e il grande albero di tiglio che germogliava nei giardini dell’infanzia di tutti. All’ultimo respiro, abbiamo invocato la mamma, il papà. Siamo cresciuti anche noi, come voi, con il privilegio di avere un mondo, alte cattedrali, luoghi sicuri per meditare che cosa eravamo chiamati a fare. Abbiamo stretto le più dolci carni, ai figli abbiamo dato tutto, tutto. Siamo stati in silenzio e anche abbiamo sussurrato, abbiamo anche gridato. La fatica di anno in anno era un piacere che i filosofi non hanno saputo apprezzare. È così bello vedervi, pensarvi. Ci siamo, è vero, distaccati. L’uomo che si è distaccato da se stesso è così puro che il mondo non può sopportarlo. Se la sola preghiera che direte mai nella vostra intera vita è “grazie”, quella sarà sufficiente. Noi vi ringraziamo. Siamo tornati a dirvelo. Se vi dicessero che domani è l’ultimo giorno dell’universo, voi piantereste oggi un albero di melo. Di mese in mese avete ricoperto la nostra memoria di affetto - non di economia, ma di affetto. Siamo sempre qui. Siamo sempre. Abbiamo scoperto quanto respiro si allarga all’apparente fine di ogni respiro. La nostra oppressa e devastata Terra “geme e soffre le doglie del parto”. Quello che avete pensato dolore era la sofferenza del parto. Fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra Terra, dove abbiamo vissuto in forma di bambini. Il creato risulta compromesso dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme di tutte le cose è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. Non abbiamo mai smesso di essere vivi, perché ci è stato insegnato a vedere noi stessi e le cose del mondo. Ogni padre vi abbraccia, ogni madre, ogni figlio e figlia. Nessuno è andato perduto. Soltanto voi potete perdervi, già forse vi state perdendo. Ma poi sarete ritrovati, vi ritroverete. Tutti voi siete i nostri nati. Ogni cosa è pace. Vi ascoltiamo nelle vostre penombre, mentre attendete al vostro lavoro quotidiano e all’amore. C’è luce ed è bellissimo...».

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